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Gay & Bisex

L'amore al tempo della quarantena


di adad
26.03.2020    |    6.642    |    3 8.0
"“Rivestiti”, gli disse, allora, il gendarme, facendosi più in là e risistemandosi l’uccello nelle mutande..."
[N.B. Quanto narrato nel seguente racconto è opera di fantasia: ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è del tutto casuale.]

La pestilenza imperversava sulla Città da ormai troppo tempo, l’opera di medici, cerusici e speziali si era rivelata finora inefficace: il contagio si espandeva, senza nulla che riuscisse a contrastarlo, e i morti si accumulavano ai bordi delle strade, dove venivano raccolti dal servizio di nettezza urbana e sepolti in fosse comuni senza neanche un rito funebre a consolare i parenti afflitti. Ammesso che ci fosse ancora qualcuno disposto ad affliggersi in quella desolazione generale.
Il fallimento della scienza medica aveva allora indotto il Governatore Generale ad imporre il coprifuoco esteso all’intera giornata, con una breve pausa dalle undici a mezzogiorno, per permettere alla gente di procurarsi qualcosa da mangiare. Ma gli esercizi commerciali e le botteghe erano ormai quasi tutti chiusi, non essendoci più nulla da commerciare, se non qualche piccione scheletrito che era stato così improvvido da farsi catturare.
Nel resto della giornata, nessuno poteva lasciare le proprie abitazioni, pena multe severissime, se non l’ergastolo, qualora si venisse riconosciuti untori del contagio.
Gualtiero camminava in fretta per la strada deserta, scivolando lungo i muri delle case silenziose; per quanto avvolto strettamente nel suo mantello, ogni tanto sentiva un brivido percorrerlo in tutta la persona, ma non tanto per il freddo pur pungente in quel pomeriggio di febbraio, quanto per la paura di incocciare in qualche ronda della milizia cittadina.
Sapeva che se lo avessero beccato, non se la sarebbe cavata tanto facilmente, non avendo nessun motivo realistico e impellente per essere in giro a quell’ora: semplicemente non ce la faceva più a starsene chiuso in quella stanza fredda e umida, in quella casa vuota, dove si respirava la decomposizione, prima ancora di morire. Non ce la faceva più Gualtiero a sopportare la solitudine e il silenzio di quelle pareti, che sembravano restringerglisi addosso, così si era intabarrato nel mantello ed era scivolato fuori, ritrovandosi ora a camminare in fretta, rasente i muri e con la paura della ronda, ma respirando quasi con gioia quell’aria pulita e frizzantina che sapeva di libertà.
Finalmente cominciò a sentirsi un po’ sollevato: il parco distava poco, ormai. Certo, le ultime ordinanze proibivano severamente di frequentare luoghi pubblici e in particolare i parchi, ma Gualtiero era disposto a rischiare: erano quasi tre mesi, dall’inizio della quarantena, che non vedeva un cazzo e il desiderio che ne aveva era talmente spasmodico da sentirsene lacerare solo al pensiero.
Non sapeva neanche lui cosa avrebbe dato pur di toccarne uno, di stringerlo fra la mani caldo e pulsante, di annusarne l’aroma asprigno, di gustarne le deliziose primizie… Gualtiero si sentì fremere a quei pensieri licenziosi e nella palpitazione quasi orgasmica del momento si sentì girare la testa, tanto che dovette afferrarsi ad un anello nel muro, di quelli usati un tempo per legare i cavalli. Ma si riprese in fretta, tanto più che si sentì alle spalle lo scalpiccio della ronda che si avvicinava. Si ritirò allora in fretta in una rientranza del muro, accucciandosi dietro dei provvidenziali cassonetti, maleodoranti di immondizia da tempo non raccolta. Lì nascosto, Gualtiero rimase a guardare la piccola truppa che gli passava davanti e andava oltre: erano solo in tre, giovanissimi, sui vent’anni, forse, e marciavano, l’armi in pugno, con passo marziale. In particolare, Gualtiero fu colpito da uno dei tre, un biondo che per un istante sembrò volgere lo sguardo verso di lui: ne ammirò il volto cesellato, il fisico armonioso, le gambe solide nella marcia e, seguendolo con gli occhi, le natiche muscolose strette nella divisa.
“Cazzo…”, sibilò, sentendosi investire da una vampata di calore.
La ronda uscì dal suo campo visivo e poco dopo il suono dei passi si smorzò nella foschia umida che cominciava lentamente ad alzarsi. Non appena fu di nuovo silenzio, Gualtiero sbirciò dal suo nascondiglio e, vedendo tutto deserto, si azzardò a venir fuori. Per un attimo fu tentato di tornare indietro al sicuro entro le mura di casa, ma solo l’idea di ritrovarsi chiuso fra quelle pareti gelide e senza vita lo sconvolse. Come se non bastasse, la visione del magnifico gendarme, qualche istante prima, lo aveva rinfocolato tutto: la sua voglia di cazzo diventò un bisogno spasmodico.
Riprese il cammino e poco dopo vide profilarsi il recinto del parco, spettrale con gli alberi spogli, ma con i cespugli fortunatamente abbastanza folti da costituire dei buoni ripari. L’ingresso del parco era transennato e con un grosso cartello:
“VIETATO OLTREPASSARE”, ma il giovane, dopo essersi guardato attorno, scavalcò con un balzo le transenne e si inoltrò per un sentiero ghiaioso, scomparendo ben presto alla vista di chiunque si fosse trovato a passare per la strada.
Sperava che qualcun altro avesse avuto la stessa idea, ma nessuno si vedeva in nei viali deserti, sui quali la foschia incombeva sempre più pesante. Per un istante Gualtiero ebbe la sensazione di trovarsi in un film dell’orrore, con qualcosa di spaventoso che gli sarebbe balzato davanti all’improvviso da un macchione bruciato dal gelo; si sentì prendere dal panico, tanto più stremato com’era dal freddo e dalla delusione; ma scosse la testa e decise che sarebbe andato avanti un altro poco, prima di riprendere la strada di casa.
Stava giusto passando davanti a un casotto di servizio, quando sentì un fruscio alle sue spalle. Diede un balzo col cuore in gola e si voltò di scatto. Non c’era nessuno. Si guardò attorno con gli occhi sbarrati, accostandosi per un istinto di difesa al muro del casotto. Non voleva ammetterlo, ma se la stava facendo sotto dalla paura. Fu allora che, con la coda dell’occhio, vide un’ombra che si avvicinava. Il cuore prese a battergli all’impazzata e rimpianse amaramente di essere venuto. La sua mente funzionava al rallentatore: stava per decidere di muovere le gambe e fuggire, quando:
“Che ci fai qui?”, si sentì dire da una voce dura, ma nello stesso tempo armoniosa.
Gualtiero si voltò di scatto: un gendarme gli stava davanti col mitra spianato.
“Che ci fai qui? – ripeté la voce – non lo sai che è proibito?”
Già spaventato da quell’ improvvisa, quanto inaspettata comparsa, Gualtiero
entrò maggiormente in confusione, quando realizzò chi era il nuovo arrivato: era il giovane gendarme, nella cui ammirazione si era perso poco prima. Come era arrivato fin lì? lo aveva visto scavalcare le transenne? lo aveva seguito?
“Allora?”, lo sollecitò il gendarme, puntandogli contro il mitra.
“Io… - balbettò Gualtiero, offuscato dal panico e insieme soggiogato dal magnetismo erotico che l’altro sprigionava – io sono uscito…”
“Lo vedo che sei uscito. Non sai che l’ordinanza del Governatore Generale proibisce di uscire di casa senza motivo? E tu ce l’hai un motivo, eh? ce l’hai un cazzo di motivo per trovarti qui a quest’ora?”
Incalzato da quella raffica di domande, il povero Gualtiero ansimava più morto che vivo: conosceva bene l’ordinanza e le pene severe per chi veniva colto in circolazione senza un valido motivo al di fuori della fascia oraria. E lui che motivo aveva?
“Avevo… avevo bisogno di… camminare un po’…”, improvvisò con un filo di voce.
“Oh, avevi bisogno di camminare… - lo prese in giro il gendarme – e proprio qui ti ha portato il bisogno di camminare? Qui vengono i froci a rimorchiare, non lo sapevi? Ma certo che lo sapevi… Io dico che sei venuto apposta… che sei venuto a rimorchiare…”, non era una domanda, ma una constatazione e c’era un sorrisetto ambiguo sulle sue labbra, un sorrisetto che lo rendeva ancora più affascinante agli occhi di Gualtiero.
“Muoviti”, proseguì il gendarme, facendogli cenno col mitra.
“Do… dove vuole portarmi?”, balbettò Gualtiero.
“In carcere. L’ordinanza parla chiaro: Chi viene sorpreso per strada fuori dalla fascia oraria e senza un valido motivo, è passibile di arresto ecc. ecc.”
Gualtiero si sentì gelare a quelle parole.
“Per favore…”, lo implorò.
“Per favore? Ah! – lo canzonò il gendarme, mettendosi a ridere – Avrei ben due motivi per sbatterti in galera: primo perché hai violato l’ordinanza del Governatore, e secondo per atti osceni in luogo pubblico.”
“Atti osceni in luogo pubblico?”, fece Gualtiero, che intanto aveva ripreso un po’ di controllo.
“Fino a prova contraria, questo è un luogo pubblico.”, disse l’altro con un ghigno sadico sulle labbra: chiaramente, si stava divertendo come il gatto col topo.
“Ma non vedo nessun atto osceno!”, protestò Gualtiero.
“Già. Per il momento. Tirati giù i pantaloni!”, gli ordinò.
“Cosa ?…”
“Giù i pantaloni!”, gli intimò il gendarme, puntandolo col mitra.
Intimorito e senza neanche la forza di protestare, Gualtiero si slacciò la cintura con le dita tremanti, poi si sbottonò i pantaloni e se li calò a mezza coscia. Gli occhi del gendarme brillarono un momento alla luce ormai fosca del tardo pomeriggio, poi, in tono truce:
“Anche le mutande!”, gli ordinò.
Trovarsi davanti a quello sconosciuto con i pantaloni calati e le palle al gelo fu una sferzata di libidine per il povero Gualtiero, che rabbrividì, ma non tanto per il freddo, mentre un fremito gli pervadeva l’uccello , che accennò un lieve intostamento. Il bel gendarme ghignò.
“Stendi a terra il mantello, - gli ordinò – e sdraiatici sopra.”
Ignorando ormai il freddo umido del parco, il giovane si slacciò il mantello, lo stese a terra e ci si sdraiò sopra, puntellandosi sui gomiti.
Si sentiva esposto, vulnerabile, del tutto in balia di quel gendarme, che ormai lo aveva in pugno. E che si avvicinò fino a sovrastarlo.
“Adesso abbiamo anche gli atti osceni. – fece con un ghigno – Possiamo dire che ti abbiamo sorpreso in un angolo del parco, seminudo e con i pantaloni calati, mentre aspettavi che sopraggiungesse qualcuno, per fare qualcosa di sconcio, nonostante l’ordinanza prescriva di stare almeno ad un metro di distanza l’uno dall’altro... E siamo alla terza infrazione.”
“Ma io non stavo aspettando nessuno…”, protestò debolmente Gualtiero.
“Ma se fosse arrivato, non ti saresti tirato indietro, lo avresti agganciato e avreste fatto le vostre porcherie! Non ti sei forse calato i pantaloni, davanti a me?”
“Ma se è stato lei…”
“Sono stato io, cosa? Se non vedevi l’ora che arrivassi per metterti a culo nudo! Credi davvero che non ti abbia visto, nascosto dietro i cassonetti? Credi che non mi sia accorto di come sbavavi a guardarmi, mentre passavo? Ho capito subito che tipo eri e che ti avrei trovato qui. E adesso, prendi quell’affare flaccido e fatti una sega!”
Gualtiero lo fissò inebetito.
“Forza! Ti ho detto di farti una sega!”, ripeté il gendarme, minacciandolo di nuovo col mitra.
Ormai del tutto succube della forza e dell’erotismo che l’altro sprigionava, Gualtiero si prese con due dita l’uccello floscio e cominciò lentamente a stimolarlo. E intanto fissava il suo torturatore, prima a lungo negli occhi; poi il suo sguardo scese lungo la sua persona, fino a fissarsi sulla protuberanza alla convergenza delle cosce, quella protuberanza che la stretta divisa metteva magnificamente in risalto. Si leccò le labbra, mentre il suo cazzo cominciava a prendere consistenza e la sega prendeva l’avvio.
Sovrastandolo a gambe larghe, l’altro lo fissava con gli occhi lucidi, e mentre con la sinistra abbandonata lungo il fianco teneva ancora in mano il mitra, con la destra cominciò a massaggiarsi l’inguine…
“E’ questo che stai guardando, vero, frocetto? – disse con voce roca, leggermente ansimante – Lo vorresti? Oh, sì che lo vorresti… lo preferisci in bocca o tutto dentro quel tuo culo bastardo?”
Gualtiero lo fissava fra le gambe come ipnotizzato: fissava quella mano pallida che strizzava lascivamente il montarozzo sempre più rilevante. Presto il mitra fu lasciato cadere a terra e l’altra mano si unì a palpare… a lisciare… sprimacciare…
Il giovane sentì la saliva asciugarglisi in bocca,mntre la sua mano scivolava sempre più rapida sulla mazza ormai tesa. E sempre quella voce, insinuante, quegli occhi fissi su di lui, quel sorriso crudele, affascinante…
“Sì, bravo, segati, frocetto… Guardami… guardami… è questo che vuoi…” e il gendarme si tirò giù la zip, affondò la mano nella patta aperta e con un gesto fluente si cavò fuori l’uccello duro, prendendo a masturbarsi pure lui.
L’odore pungente di quell’organo poderoso raggiunse le narici anelanti di Gualtiero, stordendolo del tutto. Con un gemito famelico, fece per alzarsi a sedere, quasi volesse raggiungerlo e prenderlo in bocca; ma l’altro gli puntò un piede sul petto e lo spinse nuovamente giù.
“Sta buono, frocetto, lo sai che non si può… Dai, continua a segarti… voglio vederti sborrare… Segati per me… sborra per me…”
E Gualtiero continuò freneticamente a segarsi con gli occhi fissi sul cazzo del gendarme, che guizzava sopra di lui, ormai in preda agli spasmi di un orgasmo imminente. Ma anche per lui si avvicinava la fine: Gualtiero chiuse gli occhi, abbandonandosi alla frenesia di un piacere fino ad allora sconosciuto: sentirsi premuto a terra dallo scarpone del gendarme, vederselo incombere addosso, avvertirne l’odore del cazzo… tutto questo alimentava la sua libidine sino allo spasimo. L’orgasmo ormai prendeva il sopravvento, lui aprì la bocca per urlare, teso ormai in tutto il corpo, e in quell’istante sentì gocce calde e pesanti piovergli sulla faccia, sulle palpebre serrate, sulle labbra.
Tirò fuori istintivamente la lingua per leccarne il sapore dolciastro e con una serie di scatti sborrò pure lui, inondandosi la pancia e infradiciandosi i folti peli del pube. Quando riaprì gli occhi, dopo esserseli puliti con la mano, l’altro era ancora sopra di lui e gli scrollava addosso l’uccello quasi moscio, sempre fissandolo con un sorriso beffardo.
Gualtiero non si mosse, non sapendo come comportarsi.
“Rivestiti”, gli disse, allora, il gendarme, facendosi più in là e risistemandosi l’uccello nelle mutande.
Poi raccolse il mitra e quando Gualtiero si fu rivestito:
“Andiamo”, gli ordinò.
Il giovane chinò la testa e lo seguì rassegnato. In silenzio, attraversarono il parco ormai buio; ma raggiunta la strada:
“Vai a casa, - gli fece il gendarme con tono adesso gentile – e non tornare più qui. Hai visto quant’è pericoloso.”
Gualtiero annuì, incredulo a quelle parole, e:
“Grazie…” gli fece, non sapendo come esprimergli la sua gratitudine.
Ma l’altro sembrò capire.
“Vai a casa, - gli ripeté – quando questa merda sarà finita, ne riparleremo. E non temere: so dove abiti.”
E con un’ultima occhiata, complice e tenera insieme, il gendarme si allontanò, scomparendo ben presto nel chiarore nebbioso dei lampioni.
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