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Gay & Bisex

Cenerentolo - 3


di adad
22.06.2019    |    8.785    |    7 9.5
"“Sto preparando il caffè per la colazione…”, cercò di protestare il ragazzo..."
Vedendolo scomparire al di là della porta, il Principe rimase per un lungo momento scombussolato: non riusciva a capire. Stava andando tutto nel migliore dei modi, perché era scappato via così all’improvviso? Aveva fatto qualcosa di sbagliato? Ma cosa poteva averlo tanto sconvolto da farlo fuggire senza una parola? Sembrava essere venuto al ballo apposta per lui, sembrava felice fra le se braccia, non si sottraeva ai suoi baci, anzi li ricambiava con calore… perché d’un tratto aveva mutato atteggiamento?
Era successo qualcosa allo scoccare della mezzanotte… ma cosa?
D’impulso, il Principe corse fuori dal salottino, si guardò attorno, già sapendo che non avrebbe trovato nessuno; chiese al maggiordomo, che gli confermò di aver visto il giovane uscire di corsa dal salottino, saltare su una carrozza davanti all’ingresso e partire al galoppo. Era davvero andato via, dunque.
All’angoscia di averlo perso, cominciò ora ad unirsi una sorda gelosia: chi lo aspettava nella carrozza, chi avrebbe dovuto raggiungere così precipitosamente?
Cercò di soffocare il tarlo che gli rodeva nel cuore: no, una persona già impegnata non si sarebbe comportata in quel modo, non avrebbe risposto ai suoi baci con quel trasporto, con quella emozione? No, su certe cose non si può mentire.
Scuotendo la testa sconsolato, il Principe tornò nel salottino e lì il suo sguardo fu catturato da uno scintillio di pietre preziose sul tavolinetto. Si avvicinò e riconobbe il cock ring d’oro che il giovane sconosciuto aveva addosso e che lui gli aveva sganciato…
Nella fretta di andare, se lo era dimenticato… Il Principe lo raccolse, lo ammirò rapito e senza rendersene conto se lo portò alle labbra, baciandolo e sentendone con un brivido il leggero profumo che vi era rimasto appiccicato, il profumo che, molto più intenso, aveva respirato, quando si era chinato a… Il ricordo di aver avuto fra le labbra quel fiore gustoso, gli contrasse lo stomaco.
Doveva ritrovarlo! Costasse quello che costasse, dovesse anche rovistare in tutte le case del Regno, lo avrebbe ritrovato! Lo avrebbe ritrovato e sarebbe stato suo.
Disse al Maggiordomo che lasciasse pure continuare il ballo: lui si ritirava e non voleva essere disturbato per nessun motivo.
Raggiunta la sua camera, il Principe non riusciva a darsi pace: cos’era andato storto? Perché lo sconosciuto era corso via al tocco della mezzanotte? C’era sotto un qualche grave motivo o era stato solo un pretesto per liberarsi di lui?
No, non poteva essere stato un pretesto: doveva esserci stato un qualche grave motivo, ma quale? Seduto davanti al camino, il Principe cercò di ricostruire istante per istante tutto quanto era successo, tutto quello che si erano detti, alla ricerca di qualche elemento che gli permettesse di capire il motivo di quella fuga improvvisa; ma niente riusciva a rinvenire, anzi il ricordo non faceva che rinfocolare sempre di più la passione nel suo cuore.
Possiamo immaginare la notte che passò il povero Principe, pensando che la tarda alba invernale lo trovò ancora sveglio, ancora seduto davanti al camino
ormai spento, a rimuginare i suoi cupi pensieri, sempre con quel gioiello stretto nella mano, quel gioiello che per qualche strano motivo non era scomparso assieme a tutto il resto.
D’un tratto, il Principe non resistette più. Si alzò e suonò con forza il campanello.
Il valletto comparve all’istante.
“Vostra Altezza, - disse, vedendolo ancora vestito con l’abito di gala – ma non siete andato a letto… perché non avete chiamato per farvi…”
“Non preoccuparti, Tancredi. Fa riaccendere il fuoco e poi portami la colazione.”
Mentre il valletto si occupava si occupava dell’incombenza, il Principe si spogliò dell’abito di gala e indossò una vestaglia foderata di vaio; mangiò qualcosa di quanto il valletto gli aveva apparecchiato, poi:
“Ascolta, Tancredi, tu hai visto il giovane con cui mi sono ritirato nel salottino ieri sera. Lo conosci, sai per caso chi è?”
“No, Vostra Altezza, - rispose quello – e poi l’ho notato solo di sfuggita. Mi è sembrato molto bello.”
“Sì, - sospirò il Principe – è molto bello. Senti, chiedi alla servitù se qualcuno lo conosce o sa chi è.”
L’indagine si concluse in fretta e diede esiti a dir poco disperanti: nessuno lo aveva mai visto, nessuno sapeva chi fosse. La delusione, però, non fece che rafforzare la decisione già presa.
“Fai preparare la mia carrozza e la scorta d’onore: - ordinò al valletto – andiamo a cercarlo, dovessimo rovistare casa per casa. Chiama anche il notaio, che venga con il libro delle nascite, così sapremo dove cercare.”
***
Se la notte del Principe fu tormentata, non migliore fu quella di Cenerentolo. Rannicchiato fra la cenere tiepida del camino, il giovane non poteva non ripensare a tutti gli avvenimenti della serata e ogni ricordo era una coltellata che gli straziava le carni. Mille volte si pentì di essere andato a quel ballo e mille volte benedisse d’averlo fatto. Forse non gliene sarebbe venuto niente di buono, ma per lo meno aveva vissuto qualche istante di pura felicità.
Quando sentì la grossa chiave girare nella serratura e all’ingresso i passi concitati dei suoi familiari, Cenerentolo serrò gli occhi, sperando che lo lasciassero in pace. Speranza vana: un calcio furibondo lo costrinse a tornare nel mondo reale. Spalancò gli occhi, fingendo di svegliarsi.
“Ahi!”, fece rintanandosi più dentro al camino.
“In piedi, sfaccendato! – tuonò il barone – Preparaci la colazione,”
“Ma è notte ancora…”, osò dire il ragazzo.
“Dobbiamo forse rendere conto a te di quando vogliamo fare colazione?”
Cenerentolo riuscì a sottrarsi al calcio, che il padre gli allungava e corse a riattizzare il fuoco nel fornello; riempì d’acqua la cuccuma del caffè e la pose a bollire. Ma non fece in tempo a prendere le tazze dalla credenza, che arrivarono i fratellastri, di ritorno dalle loro camere:
“Il fuoco nella mia stanza è troppo forte!”, urlò Tarvisio, allungandogli uno scappellotto.
“Il fuoco nella mia è quasi spento! Vai immediatamente a metterci altra legna”, gli fece eco Germano, e prese Cenerentolo per un orecchio, trascinandolo verso le scale.
“Sto preparando il caffè per la colazione…”, cercò di protestare il ragazzo.
“E ti sembra questa ora di colazione? – sbraitò Tarvisio, fuori dalla grazia di dio – Non vedi che sono le tre di notte?”
“Ma nostro padre…”, fece Cenerentolo, girandosi a cercare il barone, che però era scomparso.
Abbandonandosi, allora, al suo triste destino, Cenerentolo si lasciò trascinare nella camera di Germano, dove riattizzò il fuoco, aggiungendoci altra legna. Ed era giusto chinato verso il camino, quando si sentì strattonare la lercia calzabraga sotto le chiappe e mettere a nudo il sedere.
“Sta fermo, puttanella! – gli disse il fratellastro con voce dura – Il tuo culo mi ha provocato e adesso me lo fotto!”
Lo abbrancò per i fianchi, tenendolo stretto, gli spinse il cazzo nello spacco del culo alla ricerca del buco e, una volta trovatolo, spinse con forza.
Il dolore fu atroce, così a secco; Cenerentolo si dibatté.
“Mi fai male… - ansimò – sputaci almeno sopra…”
“Puoi immaginare se me ne fotte qualcosa, che ti faccio male!”, mugugnò Germano, continuando a spingere, incurante delle urla e dei contorcimenti del fratellastro.
Arrivato in fondo, iniziò subito a scoparlo, ma senza alcun piacere, solo per sfregio, solo per sfogare la rabbia e la delusione per un progetto andato a male.
Era sul più bello, che anfanava con foga stizzosa contro Cenerentolo, quando Tarvisio irruppe nella camera, probabilmente attirato dalle grida.
“E ti pareva che questa puttana non ti si fosse attaccata al cazzo! - disse malignamente – spicciati, che ci faccio una sborrata nel culo pure io. Chissà che non mi passi un po’ la rabbia”, e si tirò fuori l’uccello turgido, cominciandolo a batterglielo sulla faccia.
Andarono così avanti per ore a tormentare e violentare il povero ragazzo, finché non caddero esausti in un sonno profondo. Cenerentolo, allora, si tirò fuori a fatica dal groviglio dei corpi nudi dei fratellastri, raccolse i suoi stracci e andò a recuperare il pitale, essendo quasi l’ora del risveglio del barone.
***
Erano ormai diversi giorni che il Principe, accompagnato dal suo valletto e dal notaio con il libro delle nascite girava per la città facendo tappa dovunque risultasse doverci essere giovani nobili fra i diciotto e i vent’otto anni, essendo questa la fascia di età degli invitati al ballo.
All’arrivo della delegazione, i candidati erano invitati a schierarsi con bell’ordine e a slacciarsi la braghetta: a questo punto il Principe passava dall’uno all’altro, cercando di allacciar loro il cock ring, ma finora era stato tutto inutile.
Dopo l’ennesima visita a vuoto, il Principe si accasciò esausto sul sedile imbottito carrozza: aveva visto e palpeggiato quasi tutti i cazzi del Reame, ma per nessuno il magico gioiello era andato bene: ad uno era troppo largo, ad un altro troppo stretto. La delusione cominciava a farsi cocente e il Principe si chiedeva se era davvero mai esistito il proprietario di quell’inutile affare.
“Chi è il prossimo?”, chiese stancamente, mentre i cavalli prendevano a muoversi.
“Il prossimo… e anche l’ultimo, è il barone di Culignac, - rispose il notaio, dopo aver consultato il suo registro.
“Ah, sì… - fece il Principe – ricordo i suoi due figli. Stavo quasi per sceglierne uno, quando comparve lo sconosciuto che mi ha rapito il cuore.”
“Se vi ricordate di loro, Vostra Grazia, possiamo escluderli subito e non perdere ulteriore tempo.”
“Meglio di no, notaio: se non li visitiamo, potrebbero averne a male; diamo una palpata pure a loro, così li facciamo contenti.”
In quel momento la carrozza si fermò davanti a Palazzo Culignac e il valletto si affrettò ad aprire la portiera, onde permettere al suo padrone di scendere.
Il Principe guardò la facciata scrostata, le finestre cadenti, il portone rappezzato:
“Questa sarebbe la loro dimora?”, chiese, arricciando il naso.
“Non se la passano troppo bene, Vostra Altezza, dopo che la buonanima del vecchio barone si è mangiato quasi tutto al gioco e con le puttane. Ormai gli è rimasto solo questo palazzo, inalienabile per antichi vincoli di non so cosa.
Volete davvero che procediamo?”
“Procediamo”, disse il Principe e il valletto bussò solennemente al portone rappezzato.
Ormai in ogni dove si sapeva del giovane sconosciuto, comparso inaspettatamente al ballo e fuggito al tocco della mezzanotte, e si sapeva della ricerca che Sua Altezza aveva intrapreso per cercarlo, per cui, quando udirono bussare solennemente al loro portone, tutti nella casa si sentirono balzare il cuore in petto: il barone, per l’onore di ricevere in casa il Sovrano e l’imbarazzo di non poterlo accogliere degnamente; i baroncini, per l’opportunità che gli si presentava di poter tentare nuovamente la buona sorte; il povero Cenerentolo, per la gioia di rivedere l’amato e nel contempo per l’angoscia mortale di essere in quelle condizioni, incrostato di sporcizia e di cenere, con quegli stracci rattoppati addosso.
Ma visto che la terra non si apriva per farlo sprofondare, ci pensò il barone a trarlo d’impaccio.
“Prendete quello sgorbio lì e nascondetelo da qualche parte, presto!”, disse ai figli maggiori e quelli lo afferrarono e lo trascinarono nello sgabuzzino delle scope, dove lo imbavagliarono, lo legarono e lo gettarono in un angolo, ricoprendolo con un montagna di sacchi del carbone, vecchi strofinacci e scarpe sfondate. Dopo di che serrarono la porta, consegnando al padre la chiave.
A quel punto, il barone andò ad aprire, accogliendo il Principe con tutte le cerimonie e tutti i salamelecchi del caso.
“Voi sapete perché siamo qui, vero, barone?”, disse il Principe.
“Sì, Vostra Altezza.”
“Allora non perdiamo tempo. Dove sono i vostri figli?”
“Abbiate la compiacenza di accomodarvi.”, fece il barone con un inchino profondo, indicandogli la cucina, paradossalmente l’unico locale in grado di accogliere un ospite di tale riguardo.
Al suo ingresso, Tarvisio e Germano si inchinarono profondamente.
“Slacciatevi le braghette.”, disse loro il valletto.
E una volta che quelli ebbe sfoderato i loro superbi organi, il Principe si avvicinò per provare ad ognuno di essi il prezioso cock ring. Ma, com’era prevedibile, l’esito fu ancora una volta negativo.
Con un sospiro di delusione, il Principe rimise il gioiello nella sua custodia e fece cenno al notaio di andare. Ma quello, sfogliando il suo registro.
“Barone di Culignac, - disse – voi dovreste avere un altro figlio.”
“Un altro figlio? – si stupì quello – Non mi risulta proprio.”
“Eppure nel registro delle nascite è segnato un figlio nato dalla vostra seconda moglie.”
“Ah, quella… ma era solo una serva di casa.”
“Serva o non serva, - replicò duramente il notaio – l’avete sposata e ci avete fatto un figlio…”
“Quando è successo?”, intervenne il Principe.
“Esattamente diciotto anni fa, Vostra Altezza.”
“Diciotto anni fa… E dov’è oggi il ragazzo?”, fece rivolto al barone.
“Ecco, Vostra Altezza… il ragazzo è… ecco, veramente è morto, non è vero, figli miei?”, balbettò il barone, non sapendo più dove arrampicarsi.
“Sì, padre, è morto.”, disse Tarvisio.
“E’ morto. Vostra Altezza. – confermò Germano – Un giorno è caduto nel pozzo ed è annegato. Sì, proprio così.”
Il povero Cenerentolo, intanto, rinchiuso nell’attiguo ripostiglio, sentiva tutto, mandava delle grida strozzate, ma nessuno lo sentiva, cercava di fare rumore, ma lo avevano legato troppo strettamente.
“Andiamo, notaio, - fece allora il Principe – qui abbiamo finito.”
Stavano uscendo dalla cucina, quando il portone si spalancò ed entrò un postino, che sventolava una busta con la mano.
“Telegramma per il baroncino de Culignac!”, annunciò tutto giulivo, precipitandosi dentro.
Tarvisio e Germano, con la braghetta ancora aperta, si fecero avanti.
“E’ per me!”
“No, è per me!”
“Chi di voi due è Giannino de Culignac?”, chiese il postino.
“Qui non c’è nessun Giannino de Culignac!”, disse seccamente il barone.
“Impossibile! Se è arrivato un telegramma, vuol dire che c’è! Le Poste non sbagliano, non possono sbagliare! Allora, dov’è Giannino de Culignac?”, e si guardava attorno, con espressione interrogativa.
A quel battibecco, il Principe era tornato indietro: c’era qualcosa che non quadrava in quella faccenda. Intanto, il povero Cenerentolo era riuscito ad avvicinarsi ad un mestolo ammaccato e a dargli un calcio.
Tutti si girarono a quel rumore.
“Dev’essere un topo…”, balbettò il barone.
Ma il postino, insospettito, si avvicinò e bussando con forza:
“Signor Giannino, se siete lì dentro, c’è un telegramma per voi!”, annunciò.
Nel silenzio generale, si udì un fievole “Mmhmmm” in risposta.
Il Principe provò la maniglia: la porta era chiusa a chiave.
“La chiave di quella porta, barone.”, disse allora.
“Ecco… Vostra Altezza… io…”
“La chiave di quella porta!”, intimò, con tono che non ammetteva repliche.
Con mano tremante, il barone gliela consegnò e, una volta aperta la porta, quello che apparve alla vista fu lo spettacolo miserevole di un ragazzo legato, imbavagliato e sepolto in mezzo agli stracci.
Il Principe lo riconobbe all’istante: si precipitò dentro e lo liberò con le mani tremanti.
“Mio adorato, - mormorò, asciugandogli le lacrime con un bacio – cosa ti hanno fatto?”, e lo aiutò a rialzarsi.
“Questo sarebbe il vostro figlio morto! – disse con voce terribile, comparendo sulla soglia assieme a Cenerentolo – quello che sarebbe annegato nel pozzo! Renderete conto alla mia giustizia di questo ulteriore abominio. Guardie, arrestateli.”
E mentre il barone e i baroncini de Culignac venivano trascinati via:
“Per conto mio non è più necessario, - affermò il principe – ma perché nessuno abbia a dire che non ho fatto le cose in regola, slacciati la braghetta, Giannino.”
E quando il ragazzo si fu denudato la parte, il Principe si avvicinò a gli allacciò il cock ring, che aderì perfettamente alle sue generose forme. L’applauso scrosciò spontaneo da parte dei presenti; poi il Principe passò un braccio sulle spalle di Giannino, non più Cenerentolo, e lo guidò verso la carrozza reale, che li aspettava con le portiere aperte.
Il valletto e il notaio col registro delle nascite si accodarono, ben felici del successo dell’impresa, accomodandosi anche loro e già pregustando le prelibatezze che avrebbero gustato nei prossimi inevitabili festeggiamenti.
Stava per dare al cocchiere l’ordine di partire, quando:
“E il telegramma? – fece il Principe – Dov’è finito il postino col telegramma?”
Ma per quanto lo cercassero, del postino non v’era più traccia, né se ne trovò nelle successive ricerche presso l’ufficio postale, dove, addirittura, non risultò alcun telegramma all’indirizzo del baroncino Giannino de Culignac.
E mentre la carrozza partiva al piccolo trotto, un fievole cri.. cri… risuonò all’orecchio di Giannino, che sorridendo si abbandonò con la testa sul petto del suo Principe.

Io la chiuderei qui, ma siccome immagino che qualcuno particolarmente curioso vorrà sapere di questo e di quello, aggiungo che il Principe e Giannino vissero per sempre insieme felici e contenti, come è giusto che fosse; mentre il barone e i suoi perfidi figli furono condannati a servire nei bordelli militari lungo la lontana frontiera orientale, quella terribile frontiera lungo il deserto dei tartari, per intenderci.

FINE
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