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Frate Martino - 7


di adad
15.04.2021    |    7.336    |    7 10.0
"Wolfango lo fissava esterrefatto: bisogna dire che il rapporto orale non era molto comune a quei tempi, per ovvi motivi igienici..."
Quando tornò da Wolfango, qualche ora dopo, Martino sfoggiava la più scintillante livrea che avesse mai visto, con le gambe inguainate nella calzamaglia a due colori, il farsetto di velluto azzurro sopra una camicia di lino bianca e la braghetta voluminosa annodata da nastri multicolori. Abituato com’era a indossare il saio o calzoni cascanti, che nascondevano praticamente tutto, all’inizio si trovò un po’ a disagio con questi abiti all’ultima moda, che sembravano fatti per mettere in evidenza le sue doti virili.
E infatti Wolfango emise un leggero sibilo, quando gli comparve davanti. Si alzò dal suo tavolo e gli andò incontro:
“Accidenti, che magnificenza!”, esclamò sinceramente meravigliato.
Martino, però, si sentì ancor più intimidito da quelle lodi: anche se erano pressoché coetanei, Wolfango era più imponente e lo sovrastava di quasi tutta la testa. Per non parlare dell’abisso sociale che li divideva: l’uno barone e Capitano dei Cavalieri di San Giovanni, l’altro pur sempre un servo di umilissime origini.
Ma la sincera ammirazione che leggeva negli occhi del suo signore valse a rinfrancarlo.
Wolfango suonò un campanello.
“Questo è Almerigo, - disse a Martino, indicandogli il funzionario che era entrato –è il maestro della casa: vai con lui, ti farà visitare il palazzo e ti spiegherà quali sono le tue mansioni. Messer Almerigo, - si rivolse poi all’uomo - vi raccomando questo giovane: è il mio valletto; istruitelo sui suoi doveri. Ma trattatelo bene, vi prego.”
Il siniscalco si inchinò e fece cenno a Martino di seguirlo.
Wolfango rimase dal solo, col cuore in tumulto: l’improvvisa apparizione di Martino lo aveva precipitato ad un tempo che credeva dimenticato. Si rivide disteso sulle ginocchia di Alterio, con la sua mano che gli colpiva le natiche a mezzo tra un ceffone e una carezza… e le sue dita, che lo esploravano nell’intimità, che lo penetravano… E adesso Martino… Martino tornato da chissà dove e così bello nella sua giovanile, esuberante virilità.
Brividi di eccitazione cominciarono a formicolargli sotto la pelle, concentrandosi all’inguine, il cui abitante ben presto fece sentire la sua voce. Forse aveva sbagliato a farlo restare… forse avrebbe dovuto imbarcarlo sulla prima nave in partenza per l’Italia.
Wolfango strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nella carne, nel tentativo di reprimere quegli impulsi lussuriosi e finalmente riuscì a calmarsi. Tornò a concentrarsi nel suo lavoro, ascoltò la relazione delle spie, Rolando e Virgildo, che aveva mandato in territorio nemico, ricevette diversi funzionari e finalmente, calata la sera, si ritirò nel suo appartamento, dove trovò Martino ad aspettarlo.
“Il bagno è pronto, mio signore.”, gli disse.
Era stato informato, infatti, dal maestro della casa che il capitano aveva l’abitudine di rilassarsi nel bagno, dopo una giornata di lavoro, e spesso di farcisi servire anche la cena, quando non c’erano ospiti: segno evidente di quanto si fossero ammolliti anche i costumi dei severi Cavalieri a contatto con le raffinatezza levantine.
Seguito dal valletto, Wolfango si diresse verso il locale da bagno, un lussuoso stanzino, piastrellato di mattonelle azzurro mare e con una grande vasca al centro, una vasca di marmo alimentata da una conduttura, che terminava con una testa di leone in bronzo dorato, da cui, girando una leva, scaturiva direttamente acqua calda proveniente da chissà dove.
La vasca era già piena e il vapore riempiva la stanza. La morbida luce delle lampade si rifletteva sulle piastrelle umide, traendone mille riflessi e dando la sensazione di trovarsi nella dimora di una qualche divinità nel fondo del mare. Mai come quella sera, Wolfango ne rimase colpito… tutto aveva preso come una nota di magia.
“Aiutami a spogliarmi…”, disse piano Wolfango.
E Martino, con mano tremante cominciò a sciogliergli i lacci del farsetto, sfilandoglielo e aiutandolo poi a togliersi la camicia. La vista del solido petto, ombrata da una folta peluria, lo emozionò, mentre l’odore pungente delle ascelle gli giungeva alle narici, dandogli un’ebbrezza mai conosciuta. Ancora una volta Martino si meravigliò del cambiamento che l’altro aveva subito.
“Siete molto cambiato da…”, gli sfuggì.
“Cosa intendi?”
“Siete… siete diventato un uomo.”
“Anche tu.”, disse Wolfango, fissandolo negli occhi.
Martino aveva cominciato a sciogliergli i lacci della braghetta.
“Faccio io.”, disse però Wolfango, e si voltò, dandogli le spalle.
Si sfilò in fretta la calzamaglia e rimase nudo… provocantemente nudo. Martino si sentì torcere lo stomaco alla vista delle natiche sode che sovrastavano le cosce robuste come capitelli sulle colonne di un antico tempio; sentì tutto un rimescolio dentro, mentre la testa gli si annebbiava e la mano gli si muoveva da sola… Sfiorò la tonda superficie con incredibile delicatezza. Wolfango non si mosse, ma gli si accapponò la pelle, mentre un leggero sospiro gli sfuggiva dalle labbra socchiuse.
Reso più audace da quella tacita acquiescenza, Martino prese a carezzargli le natiche a piena mano; poi, come per un’improvvisa folgorazione, sollevò la mano e gli affibbiò una violenta ceffonata, che risuonò fra le pareti della stanza.
“Ah!”, gemette Wolfango e, giratosi, lo fissò con aria stravolta; poi lo spinse a sedersi su uno sgabello e gli si distese sulle ginocchia, puntellandosi a terra con le mani e con i piedi.
Sentendosi premere sulla coscia il suo cazzo eretto, Martino prese a sculacciarlo, come un tempo nel fienile del castello, ma con più forza adesso, con più determinazione. Ma non diverso era il modo con cui Wolfango sguaiolava, dimenandosi sulle sue ginocchia, con le chiappe ormai deliziosamente rosse;
finché, con un guizzo, gli si sottrasse e gli si inginocchiò in mezzo alle gambe: gli slacciò febbrilmente la braghetta, quasi strappandogliela via, e gli cavò fuori l’uccello, che ormai dava in escandescenze.
Per un po’ glielo massaggiò, spremendogli con la mano le grosse palle, quasi indeciso su cosa fare, poi lo fissò negli occhi e:
“Facciamo quel gioco, - disse – quello che tu sei lo stallone e io la tua giumenta, lo ricordi?”
Altroché, se lo ricordava! Martino si sfilò in fretta la calzamaglia, poi lo fece mettere a quattro zampe, gli si accosciò dietro e, bagnatosi un dito di saliva, lo spinse nello spacco, cercò l’apertura e glielo spinse tutto dentro. Erano anni che non veniva sondato, per cui lo sfintere aveva perso elasticità e Wolfango lo sentì in modo particolare, nonostante la sua esiguità. Anche Martino si accorse della rigidità, per cui, estratto il dito e sputatoci sopra un grosso grumo di saliva, tornò a penetrare l’orifizio, che stavolta lo accolse più agevolmente. Continuò a massaggiare prima con uno, poi con due e infine con tre dita, e quando sentì che scorreva abbastanza scioltamente:
“Volete davvero che lo facciamo?”, gli chiese, col cazzo ormai vicino all’orgasmo.
“Sì… - rispose Wolfango con un gemito – mettimelo dentro… lo desidero tanto… fammi fare la tua giumenta…”
E Martino, senza esitare oltre, lo coprì e gli scivolò dentro agevolmente… ma solo fino a metà, quando dovette far forza per vincere la resistenza di un muscolo non ancora abituato al suo nuovo calibro. Sentiva Wolfango tremare sotto di lui, lo sentiva gemere di dolore, ma anche sospirare di piacere… quel piacere che si rinnovava dopo tanto tempo e che scopriva ancora più struggente di quanto lo ricordasse.
Quando Wolfango realizzò che il cazzo di Martino era tutto dentro al suo culo e i peli del pube gli sfregavano sullo sfintere dilatato, la sensazione di pienezza lo sopraffece e, rimanendo piegato, allungò indietro le mani, lo afferrò per le natiche e se lo spinse dentro ancora di più.
Spasimando non meno di lui, Martino prese allora a macinargli contro con il bacino, poi, resosi conto che era il momento, diede inizio alla monta e dopo qualche attimo di aggiustamento, l’uccello del valletto scorreva che era una meraviglia nel condotto del Capitano, strappando ad entrambi gemiti e sospiri di vera goduria.
Ma troppo erano carichi entrambi, troppo eccitati, per cui l’accoppiamento durò ben poco: ad un tratto, Martino sentì lo sfintere di Wolfango strizzargli ripetutamente l’uccello, mentre lui si contorceva, sguaiolando, in preda agli spasimi di un orgasmo spontaneo; questo spinse anche lui verso il limite e, inarcandosi col busto, glielo spinse dentro con forza tutto quanto, mentre gli si aprivano le cateratte e il seme prendeva a schizzargli fuori dall’uretra, riempiendo l’ampolla anale del compagno.
Rimasero a lungo congiunti, tremando e ansimando, Wolfango a quattro zampe e Martino sopra di lui, che gli aveva passato le braccia attorno al petto e lo stringeva a sé convulsamente.
Quando l’altro gli estrasse dal culo l’uccello ormai flaccido, Wolfango si rigirò e si sedette per terra, la schiena poggiata alla vasca e Martino gli si sedette al fianco.
“E’ stato più bello di quanto ricordassi.”, disse Wolfango dopo un po’.
“Anche per me…”
“Forse perché ce l’hai più grosso…”, osservò Wolfango.
“E voi il buco più stretto…”, gli fece eco Martino.
“Forse perché siamo cresciuti e stavolta eravamo consapevoli di quello che facevamo.”, concluse Wolfango.
“Forse…”
“Vieni, - disse Wolfango, aiutandolo a rialzarsi – entra in acqua con me.”
Martino si tolse quel poco che gli rimaneva addosso ed entrò nella vasca. L’acqua era caldissima, gli pizzicò la pelle. Wolfango se lo fece sedere al fianco e gli passò familiarmente un braccio attorno alle spalle: in questo momento non esistevano più differenze sociali o di grado: erano uguali di fronte al desiderio che li aveva uniti, di fronte al piacere che avevano provato. Erano immersi entrambi fino al collo. Wolfango lo strinse a sé.
“Sono contento di averti ritrovato…” disse carezzandogli la guancia.
Martino sorrise e, senza dire niente, si protese e gli sfiorò le labbra con le sue.
“Perdonatemi…”, fece, ritraendosi.
Ma Wolfango si illuminò in volto e, passandogli la mano dietro la nuca, accostò il volto di Martino al suo e fu lui stavolta a premere le sue labbra ancora inesperte su quelle dell’amico. Dopo un istante erano lì a baciarsi, immersi nell’acqua fino al collo, mentre le mani iniziavano la loro esplorazione l’uno sul corpo dell’altro, alla scoperta dei luoghi segreti, dei luoghi da carezzare e baciare più tardi, fuori dal bagno.
“Accidenti! - fece Wolfango estasiato, interrompendo per un momento baci e carezze – Se ci vedesse adesso mio padre…”
“Mi farebbe squartare fuori le mura…”, commentò Martino.
“E secondo te, glielo lascerei fare? Dovrebbe passare sul mio cadavere…”
“Credo che lo farebbe!”, rise Martino.
“Per fortuna, allora, è lontano le mille miglia e qui ci siamo solo io e te.”
Ripresero a baciarsi e a carezzarsi, mentre l’acqua cominciava a stiepidirsi. Fu il freddo a riscuoterli dopo diverso tempo. Allora uscirono, si avvolsero in un ampio telo e si asciugarono a vicenda, ridendo e facendosi solletico come due fanciulli.
Del resto, avevano scoperto che nulla era cambiato dai giorni lontani nel fienile e sentivano di avere un sacco di tempo da recuperare.
Incuranti dell’eccitazione che tuttora li divorava, una volta asciutti si rivestirono e uscirono dl bagno ricomposti. L’uno il padrone e l’altro il suo valletto: c’erano pur sempre delle regole da rispettare, e Martino ne sapeva qualcosa.
Il siniscalco annunciò la cena e Wolfango si sedette a tavola, mentre Martino si apprestava a servirgli il vino e le pietanze: la parentesi era finita, le convenienze sociali tornavano ad avere il sopravvento. E non avrebbe potuto essere altrimenti.

Il sodalizio fra i due andò sempre più rafforzandosi: impeccabile e premuroso valletto nei suoi doveri pubblici, altrettanto impeccabile e premuroso amante nei suoi doveri privati, Martino acquistava un ruolo sempre più importante nella vita di Wolfango, che sentiva giorno dopo giorno di non poterne più fare a meno.
Anche perché ad ogni incontro, il valletto riusciva ad escogitare qualche nuova delizia, che lo mandava in estasi.
Una sera, erano nudi sul letto, ancora frementi ed abbracciati, dopo l’amore.
“Chi l’avrebbe immaginato?”, disse ad un tratto Wolfango.
“Cosa?”
“Che ti avrei ritrovato dopo tanto tempo e sarebbe successo tutto questo.”
“Vi ho pensato spesso.”, mormorò Martino-
“Anch’io… così tanto… Ricordi nel fienile?...”
“Ricordo la prima volta che vi ho visto con Alterio.”
“Ricordi come ce l’aveva grosso?”
“Più grosso del mio?”, fece Martino, scherzando e mostrandogli il suo organo nuovamente eretto.
Wolfango lo guardò.
“Sì, - rispose, fingendo un’aria seriosa – ma il tuo è più bello…”, e lo sfiorò con la punta delle dita.
Martino fremette di rinnovato desiderio.
“Vi piace?”
“Sì”, rispose languidamente Wolfango.
Un pensiero improvviso gli attraversò la mente:
“Dimostratemelo, allora.”
“Come?”
“Baciatelo…”
“Cosa?”
“Sì, baciatelo, come baciate le mie labbra…”
“Ma non si fa…”
“Perché? È lo strumento che ci dà piacere, perché non dovremmo baciarlo? Io bacio il vostro…”, e presogli in mano l’uccello semi duro, lo baciò sulla punta sbavata.
“Visto? - fece ad uno schifato Wolfango – Su, provate voi, adesso.”
E tanto insistette, che alla fine, sia pure con estrema renitenza, Wolfango accostò il volto al cazzo spasmodicamente teso di Martino. Arricciò il naso all’odore insolito e pungente, poi prese un lungo respiro e sfiorò la punta con le labbra.
“Non vale. – disse Martino – non vi ho nemmeno sentito! Adesso vi faccio vedere come si fa.”, e capovoltatosi a sessantanove, si portò con le labbra all’altezza del pisellone, lo scappellò e avvolse il glande con la lingua, lappandone il sugo.
Wolfango lo fissava esterrefatto: bisogna dire che il rapporto orale non era molto comune a quei tempi, per ovvi motivi igienici.
“Su, - lo esortò Martino, sorridendo – fate come me.”, e tornò a sorbettare con passione l’uccello ormai turgido del suo signore.
C’è da dire che dopo quello di Al-Nadir non aveva avuto modo di gustarne altri e ne sentiva la mancanza.
Wolfango esitò a lungo, poi sembrò raccogliere tutto il suo coraggio, si piegò sul cazzo dell’amico, spalancò la bocca e ne ingoiò la cappella, ma stando ben attento a non toccarla. Rimase un po’ così, poi lentamente strinse le labbra, avvolgendole attorno alla corona.
La ripugnanza , però, ebbe la meglio e se lo tolse rapidamente di bocca, pur continuando a stringerlo nella mano, mentre Martino, incurante ormai di tutto, continuava a succhiare il suo e a gustarne golosamente lo spurgo salmastro.
Wolfango era chiaramente combattuto dal desiderio di provare, di non essere da meno del suo valletto, e dal disgusto che gli suggeriva l’idea di prendere in bocca l’organo del piscio. Alla fine per sua fortuna fu il piacere che lo travolse a toglierlo d’impaccio: le sensazioni, infatti, che stava provando diventarono così forti, da coinvolgerlo totalmente e lui si abbandonò sul letto in preda ai tremori e agli spasimi dell’orgasmo incipiente.
“Dove hai imparato queste cose?”, gli chiese più tardi, quando si trovarono nuovamente abbracciati.
“Da nessuna parte, mi è venuto spontaneo di farlo e ve l’ho fatto. - mentì Martino, ben deciso a tenere segreti i suoi trascorsi – Vi è piaciuto?”
“Accidenti… è stato fantastico!”
Già, talmente fantastico, che nel travolgimento dell’orgasmo non si era accorto neanche di essergli venuto in bocca, né che Martino aveva ingoiato il suo sperma.
“Perdonami, se non sono stato capace….”, continuò Wolfango dandogli un bacio.
“No, signore... Capisco…”
“Ci riproverò…”
“Quando sarete pronto… del resto, voi mi date già questo!”
E così dicendo, gli passò una mano in mezzo alle gambe e gli infilò due dita nel buco ancora untuoso di sborra; poi, mentre Wolfango fingeva ridendo di opporre resistenza, lo rigirò sulla pancia, gli si distese sopra e glielo ficcò nuovamente tutto quanto nel culo.

FINE
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