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Storie della storia del mondo 3: L'Arca di Noè - 2


di adad
23.09.2023    |    3.721    |    5 9.6
"“Ti credo, ti credo, l’ho pensato pure io, quando li ho visti, - cercò di calmarlo Jafet – e qualcosa faremo, vedrai..."
Quando capì che i due si erano addormentati, l’ombra scivolò via dal suo nascondiglio, allontanandosi silenziosamente. Raggiunto un posto sicuro, Cam, perché di lui si trattava, si fermò ansimante, non certo per la corsa, quanto per l’indignazione che lo divorava. Avevano avuto ragione, lui e i suoi fratelli, a non fidarsi di quei due: per quale scopo diabolico si erano introdotti nell’Arca? Avevano potuto ingannare la buona fede del padre, del vecchio Noè, ma con loro non avrebbe funzionato. E quello che avevano detto di Jafet, del suo fratello preferito! Si sentì sommergere dal disgusto e dalla rabbia, ricordando le oscenità che aveva udito e di cui era stato in un certo qual senso testimone.
Doveva dirlo a qualcuno, dovevano prendere dei provvedimenti ora, subito! Non si poteva tollerare oltre la presenza fra loro di quelle persone. Ne avrebbe parlato con i fratelli. Corse dove i suoi si ritiravano per la notte, ma Sem dormiva, mentre Jafet era impegnato in una certa conversazione con la moglie Nalina e non era il caso di disturbarlo, se capite cosa intendo.
Così, deciso ad aspettare la mattina dopo, Cam raggiunse la moglie Fusca, a cui si strinse quasi alla ricerca di una boccata d’aria buona. Dormì quella notte? Ne dubitiamo, ma se lo fece, il suo sonno fu breve: sta di fatto che era ancora buio, quando si alzò a andò ad aspettare Jafet presso il suo giaciglio.
“Lo sapevo che non c’era da fidarsi di loro!”, gli disse in un soffio tirandolo in disparte per un braccio, appena quello fu in piedi.
“Cosa c’è, di cosa diavolo stai parlando?”, esclamò Jafet, ancora rintronato di sonno, scostandosi dalla fronte i bei riccioli d’oro antico.
“Gli stranieri, quelli che nostro padre ha fatto salire sull’Arca…”, disse affrettatamente Cam.
“Beh?”, fece l’altro, accostandosi ad un cumulo di fieno e cominciando a svuotarsi la vescica.
L’odore dolciastro del piscio del fratello urtò Cam, come non gli era mai successo:
“Sono froci, Jafet, sono froci, - quasi vomitò fuori il giovane ancora sconvolto – e chissà per quale losco motivo si sono introdotti nell’Arca. Dobbiamo buttarli fuori, prima che ci combinino qualcosa di brutto… di irreparabile.”
“Come fai a sapere che sono froci?”, chiese Jafet, scrollandosi il pisello, prima di riporlo nel perizoma.
“Ieri sera li ho seguiti.” rispose Cam.
“Hai visto quello che facevano?”
“Visto, no, - ammise l’altro contrariato – ma li ho sentiti… con queste orecchie… li ho sentiti giacere assieme come animali e facevano cose che non saprei neanche immaginare. Dobbiamo parlare con nostro padre e cacciarli via prima possibile”
“Vacci piano.”, disse Jafet.
“Non mi credi che sono froci?”, saltò su Cam.
“Ti credo, ti credo, l’ho pensato pure io, quando li ho visti, - cercò di calmarlo Jafet – e qualcosa faremo, vedrai. Ma adesso ci servono: sono quattro braccia che lavorano e non possiamo farne a meno. Ci penso io a loro, d’accordo?”
“Uno ha detto che ti ha spiato mentre pisciavi!”, disse malignamente Cam.
“Davvero? – avvampò Jafet – Allora è peggio di quanto immaginassi. Andiamo adesso, abbiamo molto da fare.”
“Ma…”
“Andiamo, ho detto: ci penseremo quando sarà il momento. Sono tuo fratello maggiore, ubbidisci!”
Cam si morse le labbra, ma chinò la testa e lo seguì: era il fratello maggiore, il primogenito, e gli doveva ubbidienza come a suo padre, ma dentro la rabbia lo divorava.
Seguì una lunga e spossante giornata di lavoro a spalare letame e liquame, scaricati fuori dagli oblò, mentre il diluvio continuava e la pioggia scrosciava incessante sul fasciame dell’Arca. E poi ad ognuno la sua razione di fieno o di biada, l’acqua negli abbeveratoi, e quella per fortuna non mancava!...
Era sera, quando poterono finalmente sedersi per la cena, a cui nessuno invitò i due stranieri, che presero un tozzo di pane, un orciolo d’acqua e si ritirarono nei loro alloggi all’altro capo dell’Arca, seguiti dagli sguardi rabbiosi di Cam e quelli incuriositi di Jafet.
Appena placati i morsi della fame, anche se non del tutto, i due si spogliarono nudi e si diedero sollazzevolmente a placare i morsi di ben altra fame.

Era una buona ora della notte e tutti dormivano nell’accampamento di Noè, quando una figura aprì gli occhi, si levò silenziosamente dal fianco della moglie e, cercando di fare meno rumore possibile, uscì dal fievole alone di una lucerna notturna e scivolò fra i cumuli di fieno verso il giaciglio dei due reietti. Avanzò a tentoni, attento ad evitare eventuali fruscii, nonostante l’incessante scroscio della pioggia, finché giunse nelle vicinanze e cominciò ad avvertire sommessi bisbigli e languidi sospiri. Allora, si fermò, aguzzando le orecchie. Ma altro non gli giungeva, oltre a smorzati rumori di un’indubbia attività erotica. Rimase fermo e zitto, gli occhi sbarrati nel buio, le orecchie appizzate a cogliere il minimo sussurro.
Quei due stavano giacendo come un uomo fa con una donna, non c’erano dubbi, quando una voce un po’ più forte mormorò languidamente:
“Tutto dentro… Oh, che bello…”
Tutto dentro? Tutto dentro, e dove se non nel culo? Uno l’aveva messo nel culo dell’altro… Quella consapevolezza, l’immagine di uno che ficcava il suo organo tutto nel culo dell’altro, lo sconvolse. Si sentì travolgere dalla nausea, ma pure da una strana eccitazione, di cui al momento non si rese conto.
In preda alla confusione, retrocesse lentamente fino a distanza di sicurezza. Allora, si fermò, sedendosi affondato nel fieno. Sapeva che quelle persone consumano il sesso possedendosi…ma un conto è saperlo, un altro trovarcisi di fronte. Cam aveva ragione: bisognava cacciarli via e al più presto. La loro presenza sull’Arca era più pericolosa di quella del Maligno nel Giardino dell’Eden.
Il giorno dopo ne avrebbe parlato col padre e avrebbero deciso cosa fare.
Ma il giorno dopo successe di tutto: i leoni erano stufi di mangiare biada e volevano saltare nel recinto delle gazzelle, che strepitavano terrorizzate. Le iene cominciarono a sghignazzare, pregustando un lauto pasto. I pipistrelli cominciarono a svolazzare in giro, seminando su tutti il loro guano puzzolente…
Insomma, una baraonda indescrivibile, che ci volle del bello e del buono per riportare gli animali alla ragione… in senso figurato, ovvio.
Alla sera, erano tutti così stanchi, che crollarono addormentati sul posto, senza neanche cenare, compresi Alef e Clem, che per quella notte rimase a bocca asciutta. Il lato positivo fu che con tutta quella confusione, a Jafet passò del tutto dalla mente di parlare col padre.
La giornata successiva fu più tranquilla, così appena fu buio, i due reietti presero un tozzo di pane, un boccale di birra annacquata, e se ne andarono per i fatti loro. Raggiunto il loro posto, Clem non perse tempo: mentre l’amico sbocconcellava il pane, lui aprì un piccolo oblò, raccolse una tazza d’acqua piovana e con una pezzetta cominciò a lavargli accuratamente il buco del culo.
“Lasciami almeno finire questo pezzo di pane…”, lo rimproverò Alef, ridacchiando.
Ma Clem non gli diede ascolto:
“Mangia, mangia.”, gli rispose, poi gli incollò le labbra sull’orifizio e cominciò a saettarci dentro la lingua.
Pur essendo l’uomo della coppia, e forse proprio per questo, Alef impazziva a quel gioco perverso; sentire la lingua frenetica dell’amico lappargli tutt’attorno il buchetto e poi guizzargli spudorata nel condotto, gli faceva schizzare il cervello.
In genere, la lingua precedeva di poco le dita, che gli pizzicavano la prostata, mentre una bocca avida gli succhiava il baccello…
Ma quella sera, anche Alef era particolarmente arrazzato e bastarono un paio di slinguate per renderlo più infoiato di un bisonte: afferrò, allora, Clem per la collottola, e se lo mise sotto a quattro zampe.
“Vieni qua, vacca, che ti monto!”, grugnì, in preda alla più sconcia bramosia, e senza perdere tempo, gli allargò le chiappe, gli sputò nel buco del culo, o per lo meno in quella direzione, perché col buio non si vedeva niente, poi ci guidò sopra il cazzo sbavante e, con un colpo, glielo conficcò mezzo nel retto.
Clem era abituato a quei modi brutali e accolse l’assalto con un guaito di piacere; del resto, il suo pertugio era talmente sfondato, che si lasciava penetrare in qualsiasi situazione senza batter ciglio.

Dopo un po’ che i due si erano allontanati e non appena gli altri caddero in un sonno ristoratore, un’ombra si levò dal suo giaciglio e strisciò silenziosamente verso quello di Alef e Clem. Si avvicinò a portata d’orecchi e stavolta non ci furono dubbi su cosa i due stessero facendo: i quali, persi infatti nel loro delirio erotico e forse fidando troppo nel rumore della pioggia, proseguivano i loro accoppiamenti senza le abituali precauzioni.
Jafet si avvicinò ancora di più e, sporgendosi anche lui imprudentemente dal suo nascondiglio, scorse nel buio due sagome oscure, una delle quali era distesa sull’altra e andava su e giù col bacino nell’ inequivocabile ritmo della chiavata. Del resto, i gemiti, i sospiri, i grugniti di entrambi, non avrebbero in nessun caso lasciato spazio a dubbi.
“Stanno giacendo come un uomo e una donna!”, realizzò Jafet, sentendosi soffocare da quella constatazione, che pure avrebbe dovuto aspettarsi: non è forse questo che fanno i froci?
Ma un conto è saperlo per sentito raccontare e un altro trovarcisi di fronte, vedere e ascoltare due uomini persi in tale abominio. Stavolta, però, non fu solo questo a turbarlo: ad un tratto, provò la strana curiosità di voler vedere di più, di volerli guardare in faccia, onde non avere più alcun dubbio sulla loro depravazione. Voleva vedere le loro smorfie, ascoltare le loro parole, sapere chi di loro era l’uomo e chi la donna, anche se una certa idea già se l’era fatta.
Allora, strisciò avanti un poco alla volta fino ad emergere con tutto il volto dal suo nascondiglio… distinse che uno era disteso sulla schiena dell’altro, ma non distingueva ancora chi… finché un languido: “Oh, Alef…”, proveniente da quello che stava sotto, gli fece capire che si trattava di Clem: era lui la donna, mentre Alef era l’uomo, come facevano intuire sia il fisico, che il comportamento più maschio. Ecco perché aveva sempre provato un’istintiva affinità per Alef, mentre Clem gli aveva sempre destato un certo disagio.
In quel momento, Alef sospirò e si abbatté tremante sulla schiena di Clem.
“Non uscire, - sospirò questi – restami ancora dentro… è così bello…”
“Non ti sazi mai, troietta… - ansimò Alef – vuoi che ti scopi un’altra volta, vero?”
“Se ce la fai…”
“Lasciami riprendere un attimo il respiro e vedrai se ce la faccio. Intanto, tienilo aperto per me.”, disse Alef, tirandolo fuori e strisciando un po’ in là per pisciare.
Fu tornando a riprendere il suo posto, che Alef sollevò la testa e vide la massa indistinta di un volto nell’oscurità.
“Chi è là? – disse – Chi sei?”
Sconvolto per essere stato scoperto, Jafet si tirò indietro di scatto: voleva scappare, ma era come se qualcosa lo trattenesse. Alef con un balzo lo raggiunse e lo prese per un braccio, accostando il proprio volto al suo.
“Jafet? – esclamò, riconoscendolo – Sei venuto a spiarci… magari volevi vedere come si divertono i froci?”
“Lasciami, siete due maiali!”, cercò di divincolarsi quello dalla stretta di Alef.
“Oh, oh, oh… Hai sentito Clem? Siamo due maiali. – gli fece il verso Alef, rivolto all’amico, che lo aveva raggiunto – Di’, ti sei divertito a guardarci?”
“Lasciami, mi fate schifo!”, sputò Jafet.
“Ti facciamo schifo? E questo cosa sarebbe?”, disse Alef, cacciandogli una mano sotto il camiciotto e afferrandogli la pannocchia dura sotto il perizoma.
Jafet boccheggiò, incapace di reagire: era talmente turbato, che non si era neppure accorto di essersi eccitato, né accennò qualche protesta, quando Alef glielo tirò fuori e:
“Guarda che meraviglia, Clem, - disse – vuoi dargli un assaggino delle nostre depravazioni?”
Clem non se lo fece dire due volte: con mossa lesta afferrò a sua volta il solido paletto, esprimendo con un mugolio la sua meraviglia, poi si chinò e se ne fece scivolare in bocca una buona metà.
Uso com’era al solo sesso canonico stabilito dai Gran Sacerdoti e finalizzato unicamente alla perpetuazione della specie, non possiamo minimamente immaginare quello che provò Jafet nel sentirsi scivolare l’uccello turgido nella bocca calda e pastosa di Clem, il susseguirsi di sensazioni di schifo e piacere che si susseguivano e gli toglievano il fiato.
Boccheggiò e si sentì afflosciare le gambe, quando la lingua di Clem glielo avvolse e ci mulinò golosamente attorno, raccogliendone le primizie. Jafet avrebbe voluto di dirgli di smetterla, ma non poté… non volle: troppo grande, troppo straziante era il piacere che stava provando e che divenne ancora più coinvolgente, quando Alef allungò la mano e prese a carezzargli lievemente le natiche.
Quel piacere nuovo, inusuale lo scombussolò del tutto e Jafet prese a tremare, mentre gemiti sempre più incontrollati gli sfuggivano dalle labbra socchiuse.
Quando Alef gli affondò di netto un dito nel buco untuoso, qualcosa si ruppe dentro di lui e con un grugnito venne nella bocca di Clem, che faticò a ingoiare quella sovrabbondante bocconata di sperma.

(continua)
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