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Gay & Bisex

Il Bello Addormentato nel bosco - 1


di adad
13.10.2018    |    12.893    |    5 9.5
"Eppure le analisi fatte li davano entrambi fertili; allora si erano rivolti ai migliori luminari del settore, avevano tentato l’inseminazione artificiale, la..."
C’era una volta… A proposito, c’avete fatto caso che le favole c’erano sempre “una volta” e mai che ci siano anche adesso? Forse è per questo che i nostri sogni sparano a vuoto e le nostre aspettative finiscono nel nulla. Vabbè…
C’era una volta, dunque, in un reame lontano ai confini dell’orizzonte, un re e una regina che vivevano felicemente e regnavano nella gioia e nel diletto dei loro sudditi. C’era, però, un’ombra che offuscava la loro letizia: per quanti sforzi facessero, per quanto ci dessero dentro con foga tutte le notti, il re e la regina, ahimé, non riuscivano ad avere un erede.
Eppure le analisi fatte li davano entrambi fertili; allora si erano rivolti ai migliori luminari del settore, avevano tentato l’inseminazione artificiale, la fecondazione in vitro, niente: gli spermatozoi del povero re non riuscivano mai a trovare la strada verso gli ovuli della povera regina. Si erano rivolti anche a maghi e fattucchiere, che avevano fatto bere ai due poveretti i più disgustosi intrugli, gli avevano spalmato i genitali di unguenti nauseanti prima e dopo la consumazione: tutto inutile. Alla fine, decisero di fare un pellegrinaggio al santuario di santa Vereconda.
Santa Vereconda era una fanciulla, che un giorno, durante una scorreria dei ferocissimi unni, si era sacrificata per salvare le sorelle, affrontando da sola l’orda dei barbari, i quali l’avevano violentata senza neanche toglierle le mutande. Le quali Mutande erano appunto conservate nel santuario, sorto nel luogo del sacrificio, e si diceva che avessero proprietà miracolose, fra cui quella di favorire il concepimento.
Un bel giorno, quindi, il re e la regina, vestiti da penitenti con un sacco di iuta stretto in vita da una fune, si incamminarono loro due da soli,verso il lontano santuario, mangiando il pane ricevuto in elemosina e bevendo l’acqua dei ruscelli: e poi dice che non si fanno sacrifici per avere un figlio! Ovviamente, dovettero astenersi anche da contatti carnali per tutto il percorso, tanto che alle fine, il povero re doveva camminare quasi piegato in due per i peso dei coglioni e il dolore pulsante al basso ventre.
Come Dio volle, giunsero al santuario, accolti con tutti gli onori dalla badessa delle mutandine, così infatti si chiamavano le monache che curavano il santuario. Dopo essersi rifocillati e rinfrescati, la regina indossò le Mutande sbrindellate di santa Vereconda e i due sposi andarono a letto, dove successe quello che doveva succedere.
Ora, che possiamo dire? fossero le virtù miracolose delle sante Mutande, fosse la potenza selvaggia degli antichi spermi barbarici sopravvissuta in qualche fibra del tessuto, fosse la sovrabbondanza del seme generativo che quella notte scaturì dalle regali palle, sta di fatto che nove mesi dopo la regina partorì fra l’esultanza generale un bellissimo maschietto, battezzato con il nome di Carlino.
Alla festa per il battesimo furono invitate tutte le buone fate della foresta, ognuna delle quali fece dono al bambino, chi della bellezza, chi del coraggio, chi della fortuna in amore ecc. ecc. Stava per avvicinarsi a porgere il suo dono l’ultima delle fate, quando, portata da una folata gelida di vento, si presentò la strega della montagna, che nessuno si era ricordato di invitare.
Vestita di nero, si avvicinò alla coppia reale seduta in trovo con un sorriso feroce sulle labbra.
“Vi sono molto grata dell’invito, le Vostre Maestà.”, fece con ironia.
Tutti i presenti erano raggelati dal terrore: la strega della montagna era nota per la sua feroce crudeltà.
“S…siate la benvenuta…”, balbettò la regina.
“Grazie, ci tenevo a dare anch’io il mio regalo a questo bel bambino.”, disse con voce mielata, facendosi vicina alla balia, che teneva il principino fra le braccia e non riusciva quasi a respirare per la paura.
La strega fissò il bambino con gli occhi bruciati dalla furia, poi gli puntò contro un dito adunco e scandì nel silenzio generale:
“Hai ricevuto i doni preziosi dalle mie sorelle fate, ma il mio lo è ancora di più, perché il giorno che compirai diciotto anni, sarai punto da un’arma e morirai.”
Detto questo, si voltò e uscì sghignazzando follemente. La sua uscita fu accolta da un sospiro generale. La regina, pallida in volto, si voltò speranzosa all’’ultima fata, ma questa:
“E’ una maledizione di morte, vostra maestà, e non è in mio potere annullarla; - disse - ma posso in qualche modo attenuarla. – e voltasi al bambino – Il giorno dei tuoi diciotto anni – proseguì - sarà fatale per te, ma non morirai: quando l’arma ti pungerà, cadrai addormentato, finché un bacio d’amore non ti risveglierà.”
Nutrito dal ricco latte della sua balia, il principe Carlino crebbe bello e forte, tanto che ben presto l’angoscia della maledizione si attenuò e solo ogni tanto si presentava alla memoria dei sudditi e di quanti lo amavano.
Il principe si dimostrava anche molto precoce in tante cose: per esempio, già verso i dieci infatti cominciò a correre dietro alle servette, come gli istitutori lo incoraggiavano a fare.
Un giorno, però, che era ormai sui tredici anni, per evitare una lezione di grammatica, andò a nascondersi nelle stalle; appena entrato, sentì dei rumori provenire dal soppalco del fienile: salì incuriosito la scala a pioli e appena gli occhi sporsero dalla botola, vide uno degli stallieri, un giovane sui diciotto anni, disteso su un mucchio di fieno, con i pantaloni calati fino alle caviglie, mentre un servetto gli impugnava l’uccello con tutte e due mani e faceva su e giù. Il principe Carlino non aveva mai visto un cazzo adulto, eretto, per giunta, e quell’affare turgido con la cappella paonazza, che appariva e scompariva sotto la pelle spessa del prepuzio, lo ipnotizzò. Era tanto più grosso del suo! Ma ad affascinarlo era anche l’espressione beata che lo stalliere aveva dipinta sulla faccia e i lievi sospiri che gli sfuggivano dalle labbra socchiuse.
“Così, bravo… - mormorava – continua così, fammi sborrare…”
E il ragazzino sorrideva felice e continuava a pompare su e giù. Il principe si sentì prendere dallo stesso calore, che lo prendeva quando montava una delle servette nel retro della cucina: il cuore prese a battergli sempre più forte, mentre il pistolotto gli si induriva nelle braghe. Rimase a guardare, mentre l’espressione sul volto dello stalliere diventava sempre più stravolta e i suoi gemiti più profondi; finché sollevò il bacino e cominciò lui stesso a scorrere nei pugni chiusi del ragazzino. Non passò molto, che un fiotto dopo l’altro di liquido denso e biancastro scaturì da quel paletto sgusciante per allagare il petto glabro, ma ben modellato del giovane stalliere, mentre il ragazzo accoglieva l’evento con una risata argentina e continuava a pompare, adesso più piano, l’organo che si andava via via sgonfiando; finché divenne del tutto molle e allora glielo lasciò ricadere sul ciuffo crespo e cominciò a spalmargli la sborra copiosa su tutto il petto.
Adesso ridevano entrambi.
Fu in questo momento che il principe Carlino decise di salire, pressato da un oscuro desiderio. Nel mettere piede sul pavimento del soppalco, i due lo sentirono, si volsero, lo riconobbero e saltarono su spaventati.
“Vostra Altezza…”, balbettò il stalliere, in ginocchio sul fieno, col cazzo penzolante fra le gambe.
Carlino si avvicinò turbato, si aprì le braghe, si tirò fuori il cazzo dolorante per la lunga erezione e voltosi ai due:
“Fatelo pure a me.”, ordinò.
Il ragazzino non si mosse, ma l’altro, ben più sfacciato, si scostò e gli fece posto sul fieno fra loro due.
“Ci penso io, Altezza, - mormorò con un sorriso furbetto – lasciate fare a me.”
Gli slacciò le braghe e gliele tolse del tutto, facendolo stendere comodamente sul mucchio di fieno, poi impugnò quel cazzetto turgido, che gli stava comodamente nella mano, e cominciò lentamente a pompare.
Non era certo la prima volta che il principe Carlino si masturbava, ma farselo fare da un altro, sentire una mano diversa che lo toccava, fu una sensazione del tutto nuova e molto più conturbante.
“Va bene così, Vostra Altezza?”, mormorò lo stalliere, poggiandosi sul gomito e passandogli l’avambraccio sotto la nuca, in modo che potesse poggiarvi la testa.
Così diventava anche molto più intimo: Carlino ne sentiva anche l’odore pungente di sudore e di stalla, ma anche l’alito caldo sul volto. Si lasciò andare, mentre il piacere cominciava a formicolargli nel basso ventre.
“Carezzagli le palle.”, mormorò lo stalliere al ragazzino, che allungò la mano e sfiorò leggermente l’involucro ancora pressoché implume.
Entrambi percepirono il brivido che scosse il principe e proseguirono con le loro attenzioni, finché il fuoco divenne troppo bruciante, il piacere troppo lancinante e all’improvviso risalì fulmineo lungo il condotto con un paio di schizzate, che lo lasciarono stremato e col cuore palpitante.
Appena si fu ripreso, saltò su con un senso di vergogna appena attenuato dalla consapevolezza che lui era il principe ereditario e poteva fare quello che voleva; si rivestì in fretta, senza guardare nessuno dei due, poi si avviò per scendere la scala. Si voltò, mettendo il piede sul primo gradino.
“Non ditelo a nessuno.”, intimò con tono involontariamente truce e prese a scendere.
Passarono alcuni giorni, durante i quali il principe seguì scrupolosamente le lezioni che gli istitutori gli impartivano; andò nel retrocucina a spulzellare un paio di servette nuove; si esercitò nell’uso della spada e insomma si dedicò scrupolosamente a tutte quelle attività che si addicevano ad un giovane principe.
Ma, ahimé, il ricordo dell’uccello baldanzosamente turgido del giovane stalliere continuava a tornargli nella mente, quando meno se lo aspettava. Anche molle era decisamente grosso… decisamente affascinante… Che si provava a tenerlo in mano? Doveva essere bello, visto quanto l’altro era felice. E quanto siero gli era uscito…
La voglia di rivederlo si faceva sempre più forte, proprio mentre cercava in tutti i modi di reprimerla: insomma, era un stalliere!
Finché un giorno non resistette e, sgusciato fuori dal palazzo nell’ora del riposo pomeridiano, si diresse verso le stalle. Lo vide subito, entrando, che stava accudendo un cavallo. Si fermò, sentendosi ad un tratto turbato; anche l’altro lo vide e lo guardò senza parlare. Poi Carlino si diresse alla scala e salì sul soppalco, sedendosi su un mucchio di fieno. Non passò molto, che la testa dello stalliere sbucò dall’orlo della botola. Si fissarono, poi il giovane finì di salire e gli si avvicinò, ponendoglisi davanti, immobile, con le braccia penzoloni sui fianchi.
“Vostra Altezza…”, mormorò.
“Fammelo vedere…”, disse piano Carlino, senza guardarlo.
Lo stalliere si slacciò le braghe, se le lasciò scivolare alle caviglie ed esibì al principe le sue parti intime senza alcuna vergogna.
Penzolava ancora molle il suo cazzo, ma era grosso, carnoso. Il principe lo ammirò a lungo, poi allungò la mano e lo prese, prima soppesandolo e poi stringendolo: era stranamente morbido e caldo.
Lo stalliere rabbrividì al contatto e l’uccello rispose immediatamente , inturgidendosi nella mano del principe che lo stringeva. Ma ecco che, sollevandosi, mostrò lo scroto, che gli pendeva dietro. Senza rendersene conto, il principe allungò l’altra mano e carezzò la borsa tirata in basso dal peso dei grossi coglioni.
Alla piacevole sensazione, l’arnese dello stalliere si tese, provocando una sgorgata di sugo, che prese ad allungarsi verso terra con un lungo filo traslucido.
Come in preda alla curiosità, Carlino continuò a dedicare tutta la propria attenzione a quel bel cazzo.
“E’ più grosso del mio…”, mormorò d’un tratto.
“E’ perché sono più grande di Vostra Altezza: quando avrete la mia età, anche il vostro sarà grosso, forse più del mio.”
“Dici davvero?”
“Per l’età che avete, è già notevole: l’ho visto bene l’altro giorno.”
“Vuoi vederlo ancora?”
“Ne sarei felice… e se Vostra Altezza desidera, potrei… potrei farvelo ancora…”
“Certo che desidero!”, saltò su il principe e in lampo si tolse le braghe, esibendo all’altro il durello già vibrante.
Lo stalliere, allora, gli si inginocchiò davanti, gli prese il cazzo con la destra e passandogli la sinistra sotto le palle, iniziò a masturbarlo. Il piacere che Carlino provava era certo intenso, ma sentiva che qualcosa gli mancava.
“Non così, - disse alla fine - mettiamoci come l’altra volta.”, e si distese sul fieno.
Lo stalliere gli si sdraiò al fianco, poggiandosi sul gomito e passandogli l’avambraccio sotto la nuca, mentre con messe esperte riprendeva a masturbarlo.
La vicinanza, l’odore, il calore dell’altro furono un valore aggiunto che accrebbero enormemente il coinvolgimento emotivo del giovane principe, soprattutto quando il l’uccello del stalliere gli premette umido e bollente contro la coscia.
Allora, mossosi un poco per avere agio, glielo prese in mano e si diede pure lui a segare lentamente. Il giovane sospirò e spinto dalla passione poggiò le labbra sulla fronte del principe. L’orgasmo fu rapido per entrambi, tanta era la loro eccitazione e quando, ripreso fiato, il principe si ritrovò con la coscia e il pube imbrattati dagli schizzi di sugo denso dello stalliere, ci intinse le dita e scoppiando a ridere di felicità, gliele passò sulle labbra. Ma la sua risata si spense, quando l’altro gli prese il polso e si spinse in bocca le dita unte, succhiandole con dolce avidità.
Da quel giorno, si ritrovarono spesso in quel fienile che era diventato l’alcova dei loro giochi, sempre più intensi, sempre più appassionati, soprattutto dal giorno in cui nella foga dell’orgasmo, Turvaldo, così si chiamava lo stalliere, poggiò la bocca su quella del principe, che istintivamente dischiuse le labbra, accogliendone la lingua anelante.
Fu il loro primo bacio e il suggello della loro passione.
Passarono gli anni e giunse il giorno fatidico in cui il principe compiva i diciotto anni. Non ci furono festeggiamenti, rimandati alla settimana successiva, se mai ci sarebbero stati; e fin dal giorno prima Carlino fu confinato nelle sue stanze, già accuratamente perquisite e ripulite da qualsiasi cosa avesse la sia pur minima parvenza di un’arma.
La mattinata era filata liscia e ormai il re, la regina, la corte, i sudditi tutti cominciavano a sentirsi più sollevati. Era passato da poco mezzogiorno, quando il principe Carlino, ormai annoiato a morte, chiese che gli facessero venire qualcuno a tenergli compagnia, perché non ne poteva più. Gradiva la compagnia di qualcuno in particolare?
“Fatemi venire lo stalliere Turvaldo, - buttò lì con noncuranza – che deve aiutarmi a scegliere un cavallo per il torneo.”, alludendo al torneo che si sarebbe tenuto nell’ambito dei festeggiamenti dei suoi diciotto anni e a cui lui stesso avrebbe partecipato.
Accuratamente perquisito dalle guardie che stazionavano fuori dall’appartamento del principe, Turvaldo infine lo raggiunse.
Appena dentro, piegò il ginocchio a terra:
“Auguri, mio principe.”, disse, baciandogli la mano.
“Cosa diavolo fai? – chiese l’altro – Alzati, piuttosto.”
Turvaldo si rialzò e gli spalancò le braccia.
“Auguri, amore mio.”, mormorò dandogli il primo bacio della giornata.
Ben presto furono nudi a rotolarsi sul letto come loro solito in baci e carezze sfacciate; ma quando Carlino gli prese il cazzo e accennò a iniziare il rito della masturbazione, ché oltre non erano andati in quegli anni, Turvaldo lo fermò.
“Ho un regalo per te.”, disse con gli occhi che gli luccicavano.
Carlino lo fissò senza capire.
“Facciamo un gioco nuovo, facciamo che io sono la tua giumenta e tu sei il mio stallone.”, disse con un sorriso trepidante, mettendosi a quattro zampe e rivolgendo le natiche verso l’amico.
“Vuoi che…”, balbettò Carlino, incredulo a quella offerta.
“Sì, mio principe, - rispose l’altro piano – è giunto il momento che il mio padrone prenda possesso di ciò che gli appartiene.”
“Io non sono il tuo padrone…”
“Sei il padrone del mio cuore e io ti appartengo… La tua giumenta è pronta…, prendila, mio signore, montala.”
Quel linguaggio sboccato eccitò ulteriormente il giovane principe, che non poco imbarazzato, si fece dietro a Turvaldo e gli infilò il cazzo nello spacco del culo, alla ricerca del buco. Ma dopo un paio di tentativi falliti:
“Aspetta”, fece l’altro e allungatasi la mano in mezzo alle gambe, gli afferrò il durello e se lo guidò verso l’apertura.
“Spingi dentro, adesso.”, disse con voce strozzata.
E il principe spinse, facendo sgusciare il glande sbavato oltre la strettura dello sfintere. Il seguito dell’avanzata fu alquanto faticoso, visto che nella loro inesperienza nessuno dei due aveva pensato ad usare almeno un po’ di sputo. Tuttavia, il desiderio aveva allentato un po’ a Turvaldo la morsa dei muscoli anali, e alla fine il percorso fu coperto e il traguardo raggiunto.
Quando Carlino premette il bacino sul sedere del stalliere, entrambi sospirarono, l’uno per sentirsi la prima volta il condotto occupato e l’altro per l’atroce piacere del pisello come sbucciato. Incapace di credere a quello che gli stava accadendo, Carlino si piegò sul dorso dell’amato, stringendolo a sé forsennatamente e premendogli dentro con tutte le sue forze.
“Monta la tua giumenta, mio signore… - mormorò Turvaldo – falle sentire che stallone sei.”
E Carlino iniziò a montarlo, muovendosi avanti e indietro, prima con esitazione, poi con sempre più baldanza, incoraggiato dai gemiti della “giumenta”, dai suoi fremiti, ma anche dal senso di completezza che tutto questo gli infondeva.
L’orgasmo, quando giunse, fu ben più travolgente delle altre volte, il suo sperma più maturo e copioso. Quando ebbe finito, rimase un pezzo avvinghiato al dorso dell’amato, non solo nell’attesa che il suo cuore rallentasse e il respiro gli tornasse normale, ma anche nel tentativo prolungare il più possibile il piacere straziante che stava provando.
“Lo hai fatto altre volte?”, gli chiese tra un bacio e l’altro, quando tornarono ad abbracciarsi.
“No”
“Eri vergine?”, chiese Carlino stupito.
“Era il mio regalo per te, la mia verginità.”
Carlino lo fissò a lungo, sentendosi invadere da un’emozione che quasi lo soffocava.
“Voglio regalarti la mia!”, disse infine d’impulso.
E senza pensarci due volte, senza lasciare all’altro il tempo di fare o dire alcunché, gli si posizionò a cavalcioni sulla pancia, impugnò con mano ferma il suo cazzo sbavato di umori e se lo puntò con decisione sul vergine pertugio.
Quindi, con un sorriso di sfida, si lasciò andare… Ma l’umida cappella era appena penetrata nel buco vellutato, che un brivido freddo percorse la stanza, le mura, il palazzo, tutto… il principe Carlino sbarrò gli occhi e senza neanche un gemito si accasciò addormentato sul petto dell’amante. Turvaldo non fece in tempo a capire cosa stava succedendo, che pure lui chiuse gli occhi nel sonno incantato; e mentre la luce del sole si spegneva in un torbido grigiore, uno dopo l’altro il re, la regina, i servi, le guardie, i ministri, i cuochi, le sguattere, perfino i gatti, i topi e le galline nel pollaio, uno dopo l’altro chiudevano gli occhi, congelati in un sonno, che minacciava di essere perenne.

(continua)
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