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Il suocero del mio migliore amico - 1


di adad
27.04.2019    |    32.961    |    19 9.5
"Non ti ho riconosciuto, scusami ancora..."
Roberto era il mio migliore amico. Eravamo stati amici fin dalle elementari, da quando ci ritrovammo seduti fianco a fianco nello stesso banco, due bambini spauriti davanti al nostro primo passo nel mondo sconfinato e misterioso dell’universo adulto.
Eravamo praticamente cresciuti insieme: stesso condominio, sia pure piani diversi, famiglie amiche, al punto che i genitori dell’uno erano quasi genitori dell’altro, stessa scuola elementare, stessa scuola media, stesso istituto superiore…
Un’amicizia cresciuta e maturata negli anni, anche se ad un certo punto il mio era diventato un sentimento molto più profondo, molto più intimo: per farla breve, un bel giorno mi ero accorto di guardarlo con un’intensità maggiore del solito, di desiderare la sua presenza con una smania che prima non avevo, di morire dalla voglia di sfiorargli la mano o la coscia, nuda nei pantaloncini estivi.
Cosa mi stava succedendo? E perché a volte, quando ci trovavamo a leggere lo stesso fumetto, fianco a fianco, il braccio dell’uno sulle spalle dell’altro, il pisello mi veniva duro e dovevo affannarmi a nasconderlo, col timore che Roberto se ne accorgesse, insieme ad una gran voglia di toccare il suo?
Non ci misi molto a capire che la mia non era più amicizia, per quanto profonda si possa immaginare, ma era… amore.
Mi ero innamorato del mio migliore amico… ma allora… allora non ero come gli altri… Per carità, non erano più i tempi dei froci e dei culattoni: era il tempo dei gay. Se ne vedevano sempre più spesso in televisione, per cui non era più così traumatico riconoscersi tali. E infatti, per me non lo fu poi tanto, anche perché avevo quel grande amore a riempirmi il cuore, o almeno così mi illudevo che fosse.
Per Roberto, però, non era lo stesso: lui seguiva il percorso prestabilito del giovane maschio “normale”, come allora si diceva. Così, non gli dissi mai niente, mi contentai del calore con cui la sua presenza mi avvolgeva, dei sogni che nutrivano le mie solitarie masturbazioni e via discorrendo.
Certo, i primi tempi fu dura; ma lentamente il fuoco della passione si sopì e subentrò il caldo affetto di un’intima ed affettuosa amicizia.
E fu così che mi fu chiesto di fargli da testimone di nozze. Del resto, chi meglio di me? Oh, intendiamoci, non è che fossi rimasto indifferente, quando mi annunciò che aveva cominciato a frequentare una ragazza, col cazzo! Rimasi a rodermi di rabbia e di gelosia per almeno un paio di mesi, prima di rendermi conto che lui era etero e quello era il suo destino, mentre io ero gay e il mio destino era amarlo e tacere.
Ma poi anche questo rigurgito si sopì e tornai con lui al cameratismo di sempre. Conobbi la sua ragazza: carina, anche se, onestamente parlando, il padre, poco più che quarantenne, era decisamente più apprezzabile di lei, con il suo aspetto gradevole e l’insieme da maschio verace. Quello che non deve chiedere mai… e infatti con me non ce ne sarebbe stato bisogno, perché gli avrei dato tutto io, anticipando ogni suo desiderio.
Direte: ma non eri perso d’amore per il tuo migliore amico? Certo, ma gli occhi li abbiamo per guardare… e anche per apprezzare. Oltretutto, Roberto era una porta chiusa e cosa avrei dovuto fare io: la casta Susanna? Passare il resto della mia vita nell’adorazione di un amore impossibile? Del resto, a venticinque anni, anche se abbiamo ancora la testa persa dietro le infatuazioni adolescenziali, abbiamo anche le palle piene peggio di una pentola a pressione e… sì, insomma, la vista del padre della futura sposa del mio migliore amico, mi diede un brivido che dal cervello rimbalzò alle palle e da lì risalì nuovamente al cervello carico di fumi libidinosi.
Gli avvenimenti si susseguirono abbastanza caotici in quei giorni prematrimoniali, per cui non ebbi modo di pensare e soppesare tante cose.
Il giorno del matrimonio, in attesa vicino all’altare, parlottavamo con Roberto per ingannare l’attesa, uno più nervoso dell’altro, quando d’un tratto l’organo intonò la marcia nuziale, all’unisono ci voltammo tutti verso l’ingresso della cappella e io rimasi un istante senza respiro: la sposa veniva avanti nel suo vestito bianco accompagnata all’altare dal padre, questo splendore di uomo, elegantissimo nel suo gessato scuro: il volto compunto, animato però da due occhi vivaci e i radi fili grigi alle tempie che gli conferivano un fascino al quale pochi, uomini e donne, saremmo stati in grado di resistere.
Per un attimo ebbi l’impressione che mi guardasse e mi sorridesse, e per un attimo "pensa che bello sarebbe stato se lui venisse avanti per me… per dire sì davanti all’altare e unire la sua vita alla mia", mi passò per la testa…
Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, mentre mi sentivo assalire da vampate di calore e mille pensieri peccaminosi mi si accavallavano nella mente.
La cerimonia andò avanti senza intoppi, nessuno si fece avanti a frapporre ostacoli al matrimonio e men che meno io, che decisi di tacere per sempre. Detto il fatidico sì e terminata la cerimonia, ci affollammo sul sagrato della chiesa per gli auguri, le foto, i commenti ecc. ecc. Sarete stati tutti ad un matrimonio, almeno una volta nella vostra vita, per cui saprete benissimo quello che succede.
Fu allora che me lo vidi venire incontro con aria sorridente.
“Lei è il testimone dello sposo, - mi fece – finalmente riesco a conoscerla.”, e mi tese la mano.
“Sì. Angelo. Molto lieto, signor Ansaldi.”, dissi e mi abbandonai alla sua stretta solida,virile.
“Piacere mio, Angelo. Non l’ho vista ieri sera alla cena.”
Intendeva la cena organizzata dalla famiglia dello sposo per i parenti e gli amici più intimi… fra cui ero ovviamente io.
“Spiacente, signor Ansaldi, ma ero trattenuto fuori città.”
“Lei è molto amico di Roberto, ho sentito.”
“Ci conosciamo fin dalla prima elementare e siamo praticamente cresciuti assieme.”
“Bella cerimonia, non trova?”, proseguì.
La conversazione andò avanti in modo più o meno insulso, ma per conto mio ero al settimo cielo per il fatto di stare con lui, di parlarci, di potermi beare della sua vicinanza. Poi ci fu il trasferimento in ristorante, le foto di gruppo, le foto familiari, le foto con gli amici e via discorrendo.
Dopo un paio di pose, io me la svignai nel parco, dove erano stati allestiti dei buffet con vari tipi di antipasti. Assaggiai un po’ di questo, un po’ di quello, dopo di che, la natura mi impose raggiungere i bagni.
Mi stavo giusto lavando le mani, quando vidi entrare anche lui. Mi sorrise:
“Prima o dopo bisogna venire anche in questi posti…”, disse.
“Purtroppo…”, commentai.
“O per fortuna…”, fece lui, entrando in un box, senza chiudere la porta.
Con la coda dell’occhio lo vidi posizionarsi davanti al water e poco dopo sentii uno scroscio sonoro, segno che stava espletando la sua incombenza. Siccome mi dava le spalle, mi voltai a guardarlo, frenando a stento l’impulso di andargli dietro e allungare la mano…
In quel momento si voltò e vide che lo stavo guardando. Feci subito finta di cercare un cestino dove buttare la salvietta di carta con cui mi ero asciugato le mani. Ma dovette accorgersi che ero leggermente arrossito.
“Dopo, ci si sente molto meglio.”disse con un sorriso complice, aprendo l’acqua per lavarsi le mani.
Lo aspettai e uscimmo assieme dai bagni.
“Hai già fatto il giro degli antipasti?”, mi chiese, dirigendosi verso i buffet.
Notai che era passato a darmi del tu.
“Una veloce esplorazione prima, signor Ansaldi.”
“Ma che signor Ansaldi… - fece lui, girandosi a guardarmi – Mi chiamo Pietro e per favore diamoci del tu.”
“Ok, Pietro.”, dissi, allungandogli scioccamente la mano, che lui strinse fra entrambe le sue.
“Bravo, ragazzo.”, commentò lui e passammo a prendere assaggini di qua e di là.
L’inizio del pranzo tornò a separarci, ma solo di poco, poiché in quanto testimone avevo l’onore di sedere al tavolo degli sposi,e così ebbi modo di continuare a scambiare con lui qualche parola e non pochi sguardi. Cioè, piano, piano: ero io che lo guardavo più o meno di sottecchi, sperando che nessuno se ne accorgesse, soprattutto la matronale signora Ansaldi seduta al suo fianco.
“Vedo che mio suocero ti ha preso in simpatia.”, mi disse Roberto, in un momento che ci trovammo a parlare insieme.
“Sembra un tipo in gamba.”, risposi vagamente.
“E lo è: mi ha chiesto di te e naturalmente gli ho detto tutto il bene possibile.”
“Beh, grazie…”, feci, non sapendo che dire.
Partiti gli sposi, era tempo di tornare a casa. Mi guardai attorno per cercare Pietro e salutarlo, visto che sarebbe ripartito pure lui, al più tardi la mattina dopo, ma non lo vidi da nessuna parte, così raggiunsi la macchina e me ne andai.
Certo, mi rattristava un po’ non averlo potuto almeno salutare: per un momento mi ero illuso che potesse succedere qualcosa fra me e lui. Che sciocco, che ero!
Una volta a casa, ero troppo stanco per fare qualsiasi cosa e men che meno uscire. Era stata una giornata davvero faticosa, anche senza lo stress a cui mi aveva sottoposto la conoscenza del signor Pietro Ansaldi. Chissà se lo avrei mai più rivisto?
Guardai mezzo film in televisione, poi presi un libro e me ne andai a letto: lessi circa tre righe e mi si chiusero gli occhi.
Dormii male quella notte… cioè, non male, ma il mio sonno era popolato di sogni strampalati, gente che andava, gente che moriva… Ricordo che in uno di essi mi trovavo con Pietro, in ascensore: lui mi baciava, poi, mentre stavo per aprirgli i pantaloni, l’ascensore di fermava, si aprivano le porte e c’era la signora Ansaldi, che urlava “Porco! Porco! Porco!” a non so chi dei due, mentre lui si girava a lei con l’uccello di fuori e le diceva “Sta zitta! Non è come tu pensi! Rispondi al telefono, piuttosto”
Mi svegliai di soprassalto col cuore in gola: erano già le nove del mattino e il telefonino stava suonando. Mi scrollai dagli occhi l’angoscia del sogno e allungai la mano a prendere il cellulare sul comodino. Il numero non era in rubrica e, come faccio di solito in questi casi, feci per chiudere la comunicazione; ma poi decisi di rispondere: a quell’ora non poteva essere qualche call-center con offerte commerciali del cazzo.
“Pronto…”, dissi con voce ancora impastata dal sonno.
“Qualcosa mi dice che ti ho svegliato.”
“E ti dice bene. Chi parla, prego?”
“Ma come? Sono Pietro! Pietro Anselmi, il suocero di Roberto: non ti ricordi più di me?”
Subito, tutti i miei mille e cinquecento sensi furono all’erta.
“Ti chiedo scusa, Pietro, ma mi sono appena svegliato e sono ancora più di là che di qua. Non ti ho riconosciuto, scusami ancora.”
“Ma di nulla, caro, figurati. Anzi, scusa me per l’ora, ma ero davvero impaziente di sentirti. Ho deciso di fermarmi qualche giorno, per visitare la città:mi fai da cicerone?”
“Certo - dissi col cuore in gola – Dove ci troviamo?”
“Veramente, sarei sotto casa tua. Roberto mi ha dato l’indirizzo.”
Saltai su dal letto.
“Aspetta che ti apro. Quarto piano. Soldini.”
Chiusi il telefono e corsi a premere l’apriporta sul citofono, e quando sentii l’ascensore fermarsi al piano, socchiusi la porta, del tutto incurante di essere in maglietta e mutande. Lo vidi uscire dall’ascensore ancora più affascinante nel suo abbigliamento sportivo: jeans e maglietta, che sottolineavano a meraviglia il fisico atletico. Il cuore mi batteva all’impazzata e l’uccello ebbe qualche mossa nelle mutande.
Pietro si guardò attorno, poi vide la mia porta socchiusa e ci si diresse.
“Ciao”, feci, aprendogli per farlo entrare.
Lui mi guardò sgranando gli occhi.
“Wow! Accogli sempre così i tuoi ospiti?”, esclamò, stringendomi la mano.
Il mio cazzo scalpitò senza più alcun ritegno a quel contatto.
“No, - feci, cercando di darmi un tono scherzoso – solo i più intimi.”
“Lieto di essere tale, allora.”, disse lui, chiudendosi la porta alle spalle.
Sperai che non si accorgesse dell’erezione che mi portavo dietro e che le mie mutande lasche non facevano niente per nascondere. Speranza vana, voltandomi un istante, mentre lo precedevo per farlo accomodare in soggiorno, lo colsi con gli occhi puntati sul mio sedere.
“Pensavo che foste ripartiti, tu e tua moglie.”, dissi tanto per darmi un tono.
“Mia moglie? Intendi la signora che era con me al matrimonio? No ah! ah! ah! ah! quella era mia sorella! Con mia moglie ci siamo lasciati poco dopo la nascita di Lavinia, mia figlia: se ne andò con il suo ultimo amante e nessuno sa che fine abbia fatto, per fortuna.”
Lo guardai interdetto.
“Mi dispiace.”, esclamai, incapace di credere che si potesse abbandonare un uomo così affascinante.
“Accomodati pure, - gli dissi, entrati in soggiorno – mi metto qualcosa addosso e preparo un caffè.”
Fu allora che mi venne vicino.
“Perché invece non mi fai accomodare in camera da letto?”, disse, fissandomi con intenzione, mentre con la mano mi sfiorava il pacco.
Mi sentii stordito.
“Come?”, balbettai.
“Non perdiamo tempo a girarci attorno, Angelo: mi piaci molto… - disse – e pure io ti piaccio… Ho notato come mi guardavi ieri… E poi, qui c’è un testimone che non sa mentire… - e mi afferrò il cazzo duro sotto le mutande tese.”
Ero come paralizzato dalla sorpresa, dal piacere: mai mi sarei aspettato un approccio così diretto ed esplicito. Pietro era davvero un uomo che non perdeva tempo: sapeva quello che voleva e come attenerlo. Mi palpò l’uccello ancora un poco, poi mi si fece più vicino, mi trasse a sé e mi baciò. L’ingresso della sua lingua nella mia bocca mi riscosse dal torpore: lo strinsi in un abbraccio e ricambiai il bacio, mentre le sue mani impazienti mi percorrevano la schiena, mi strizzavano le natiche, mi accendevano la pelle di brividi elettrici.
Il mio cazzo pulsava ormai come un forsennato e sentivo contro la pancia il suo, turgido sotto i jeans. Mi staccai da lui:
“Vieni, - gli dissi – il mio letto è ancora caldo…”, e lo presi per mano, guidandolo verso la camera.

(continua)
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