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Frate Martino - 6


di adad
07.04.2021    |    6.595    |    8 9.5
"– gli disse con malagrazia – Sono loro i tuoi padroni, adesso..."
[N.B. Questo è un capitolo interlocutorio, come a volte ne sono purtroppo necessari per seguire lo sviluppo della vicenda. Non ci sono quindi esplicite scene di sesso: chi ne sentisse il bisogno, è pregato di saltare al prossimo episodio.]

I due servi, a cui il compito era stato affidato, non appena la luna fu tramontata, verso la metà della notte, penetrarono nell’alloggio di frate Martino e mentre dormiva lo presero, lo legarono e lo imbavagliarono, calandogli un cappuccio in testa; poi lo caricarono su una barca e si diressero verso il mare aperto. Il poveretto non capiva cosa gli stesse succedendo, sospettò che qualcuno si stava vendicando di lui, ma non aveva idea di chi: come tutte le anime oneste e sostanzialmente buone, infatti, mai aveva avuto sentore che ci fosse del malanimo nei suoi confronti.
Arrivati abbastanza al largo, uno dei due prese una corda, ne fissò un capo ad una grossa pietra, che si erano portati dietro, e fece per legare l’altro capo al collo di frate Martino. Ma il secondo, forse impietosito o forse dispiaciuto per un simile spreco, convinse il collega a risparmiargli la vita e trarne magari qualche profitto; così, veleggiarono fino alla costa più vicina, dove lo vendettero al proprietario di un caravanserraglio, di nome Selim, ricavandone una discreta sommetta, con la quale più tardi aprirono una kebabberia ad Aleppo, destinata ad avere con gli anni un enorme successo.

L’inizio di questa nuova vita fu traumatico per il povero frate Martino: tanto per cominciare, la sera stessa del suo arrivo, il nuovo padrone lo violentò. Non perché gli piacesse particolarmente la carne di manzo, ma perché riteneva un suo diritto poterlo fare. Come visse frate Martino questa violenza? Male, come si può comprendere, ma lo ritenne un giusto castigo per tutte le volte che era stato lui ad abusare di qualcuno e la mente non poté fare a meno di tornare ai giorni lontani, quando aveva fatto quel tale gioco con Wolfango, nel fienile del castello. Per sua fortuna, non era più vergine e il nuovo padrone non aveva una grossa dotazione: questo limitò il danno e il dolore che fu più morale che fisico. Oltre allo stupro, frate Martino si vide depredare dei suoi begli abiti e relegare ai lavori più umili nel caravanserraglio: accudire alle bestie nelle stalle, tenere pulite le latrine e quanto di più umiliante il padrone riuscisse ad escogitare; gli risparmiò soltanto l’abominio di mandarlo a scaldare le notti ai cammellieri, per quanto le richieste fossero pressanti, vista la sua avvenenza.
Dalle stelle, insomma, il povero Martino era precipitato alle stalle nel vero senso della parola. I primi giorni se ne dolse, ma ben presto una sorta di abbrutimento cominciò a farsi strada nel suo animo e lui accettò passivamente tutto quello che la sorte gli riservava.
Erano passati un paio di mesi, senza che nulla fosse intervenuto ad apportare qualche novità, quando una un giorno, verso l’ora del tramonto giunsero al caravanserraglio due viaggiatori che, smontati, portarono i loro cammelli allo stabbio perché fossero accuditi. Fu lì che videro frate Martino, scalzo e seminudo che badava alle bestie.
Il ragazzo li colpì per la sua carnagione chiara, abbronzata per la vita all’aria aperta, ma chiaramente non olivastra, come uno si sarebbe aspettato in quelle terre. Ma fin qui, nulla di strano: poteva essere uno schiavo proveniente da chissà dove: il mare era infestato da pirati che, durante le loro scorrerie lungo le coste dell’intero Mediterraneo, catturavano giovani di ambo i sessi, per rifornire di mercati orientali.
Gli si avvicinarono e gli rivolsero qualche domanda, ma quello faceva fatica a capire la loro lingua e rispondeva stentatamente. Al che, parlando fra loro, uno dei due si lasciò sfuggire alcune parole in lingua italica e lo vide sollevare gli occhi di scatto con aria sorpresa.
Senza apparentemente dar peso alla cosa, i due si diressero verso gli alloggi, per chiedere una stanza e qualcosa da mangiare. Chiariamo subito che i due erano cavalieri cristiani travestiti, impegnati in un giro di esplorazione: in altre parole, erano due spie.
“Quel ragazzo ha qualcosa di strano.” disse il più anziano dei due, mentre attraversavano il vasto cortile.
Il suo nome era Rolando.
“Ha tutta l’aria di provenire dalle nostre terre: avete visto come ha reagito, quando ho parlato la nostra lingua?”, fece l’’altro, chiamato Virgildo.
“Non è solo questo. Al collo porta una croce.”
“Una croce?”
“Sì, una piccola croce di legno. L’ho intravista attraverso uno strappo della camicia.”
Virgildo si bloccò e afferrò l’altro per un braccio.
“Dobbiamo liberarlo! – disse con decisione – Non possiamo permettere che un cristiano sia schiavo di questi…”
“Shhhh! – lo zittì Rolando – Avete ragione, ma cercate di controllarvi. Vedremo cosa fare… per il momento, rimanete calmo e cerchiamo di non tradirci.”
Si fecero dare una stanza, che poi non era altro che un’alcova, chiusa da una tenda, con un semplice materasso per terra, e si diressero alle cucine per rifocillarsi.
“Parliamo col ragazzo, informiamoci chi è e da dove viene.”, disse Virgildo, mentre mangiavano un cosciotto di agnello, seduti all’ombra, in un angolo del cortile.
“No. Lasciamolo fuori: pur non volendo, potrebbe comprometterci. Cerchiamo invece di farcelo vendere.”
L’indomani, dopo la preghiera del mattino, a cui finsero di partecipare assieme agli altri, Rolando avvicinò il proprietario del caravanserraglio; e dopo i salamelecchi e le circonlocuzioni di rito:
“Ho una faccenda spiacevole da sottoporvi, - iniziò Rolando – il mio compagno, vedete, si è invaghito del vostro schiavo, il ragazzo che lavora nello stabbio…”
“Non è disponibile per il piacere dei viaggiatori.”, tagliò corto Selim.
“Ecco… noi saremmo disposti a comprarlo, se ci diceste il prezzo.”
“Non è in vendita.”
La trattativa andò avanti a lungo tra offerte e dinieghi; ma siccome ogni cosa ha il suo prezzo, alla fine Selim cedette alla somma offertagli dallo sconosciuto, burlandosi in cuor suo delle idiozie che un uomo può arrivare a commettere pur di soddisfare la sua lussuria. Firmò il contratto di vendita, poi si recò assieme ai due nello stabbio, dove frate Martino stava raccogliendo il letame, e toltogli il forcone di mano:
“Va con questi signori. – gli disse con malagrazia – Sono loro i tuoi padroni, adesso.”
Sul momento, frate Martino lo guardò con occhio vacuo, senza capire; poi, realizzò che era stato venduto a quei due sconosciuti e li fissò preoccupato, per quanto il sorriso di uno dei due cercasse di rassicurarlo.
Stropicciandosi le mani, per tentare di nascondere l’angoscia, si avvicinò ai suoi nuovi padroni, rassegnato al destino che lo aspettava, qualunque esso fosse.
Qualche ora dopo erano nuovamente in viaggio: i due uomini sui cammelli e frate Martino a piedi che li precedeva, reggendo le redini degli animali.
Procedettero per un pezzo sulla pista sabbiosa. Dopo ore che camminavano, prosciugato dal sole e dalla fatica, il ragazzo si sentiva le gambe molli e andava avanti solo per inerzia. Finalmente, verso la metà del pomeriggio, arrivarono in vista dei ruderi di un’antica costruzione. Ci si diressero per passare la notte.
I due, che fino ad allora si erano scambiati solo qualche parola in arabo, scesero dai cammelli, dopo di che il più giovane, si staccò l’otre dalla cintura e lo porse a frate Martino.
“Bevi, ragazzo, - gli disse – devi essere assetato.”
A quelle parole, frate Martino si bloccò con la mano a mezz’aria e la bocca spalancata per lo stupore.
“Ma… siete italici… “, esclamò.
“Siamo italici. – confermò quello – Bevi, adesso.”, e gli prese la mano, stringendola attorno al collo dell’otre.
Automaticamente, frate Martino se lo portò alle labbra e bevve un lungo sorso.
“Chi… chi siete?”, chiese, poi, mentre glielo restituiva.
“Chi sei tu, invece, - fece l’altro – e come sei finito schiavo di quel farabutto?”
“Sono … mi chiamo Martino e ero imbarcato su una nave genovese. Navigavamo in mare diretti a Rodi, quando i pirati ci hanno attaccato… hanno ucciso tutti, hanno razziato tutto il carico e hanno affondato la nave… A me… mi hanno preso prigioniero e mi hanno venduto al padrone di quel caravanserraglio.”, rispose sommariamente il giovane, ritenendo opportuno nascondere certi particolari.
“Maledetti! - commentò Virgildo – Ma adesso è finita, sei libero.”
“Libero? – disse frate Martino, sentendosi sommergere dal sollievo e nello stesso tempo dallo sconforto – E come faccio a riscattare la mia libertà? Non avrei l’ombra di quello che mi avete pagato… neanche se catturassi tutte le mie pulci e le vendessi a un soldo l’una!”
Rolando scoppiò a ridere a quelle parole.
“Non devi preoccuparti per questo, - rispose – siamo cavalieri di San Giovanni, è nostro compito e dovere riscattare i cristiani caduti in prigionia dei nemici di Dio.”
“Cavalieri di San Giovanni…”, esclamò frate Martino, mentre tutto il dolore, la sofferenza, le umiliazioni patite nei mesi passati trovava sfogo in un lungo pianto liberatorio.
Commosso, Virgildo gli andò vicino e lo abbracciò.
“Non possiamo neanche immaginare quello che hai patito, - gli disse – ma adesso è finita. Stiamo tornando ad Acri, dove c’è il nostro capitano: lui deciderà cosa fare,
magari ti imbarcherà su una nave militare e ti rimanderà in Italia.”
“Su, - intervenne Rolando, con un tono brusco, sotto il quale cercava di nascondere la sua commozione – facciamola finita, adesso. Prepariamo il campo per stanotte. Tu, Martino, raccogli un po’ di sterpi, e voi, Virgildo, accendete il fuoco. Io vedo se trovo qualcosa da mangiare qui attorno.”
E tornò infatti poco dopo, trascinandosi dietro un lungo serpente a cui aveva reciso la testa.
“Scuoialo, ragazzo, - disse a Martino – qualche suo antenato ha causato la nostra rovina, adesso tocca a lui rimediare, offrendoci per lo meno una buona cena.”
La mattina dopo si rimisero in cammino e in capo a una settimana furono in vista delle possenti mura di Acri. Era la prima volta in tutta la sua vita che frate Martino si trovava di fronte una vera città. Allo sbalordimento per le mura possenti che la cingevano, si aggiunse l’infinito via vai delle persone di ogni razza e condizione che sciamavano per le strade, il chiasso di voci umane e versi animali, unito allo strepito delle attività svolte davanti alle abitazioni; e su tutto, sovrano, il fetore in certi momenti insopportabile di escrementi e sporcizia di ogni tipo disseminati lungo tutto il percorso dalla porta in cui entrarono, fino alla Caserma dei Cavalieri.
Quando il grande portone si chiuse alle loro spalle, frate Martino tirò un respiro di sollievo: non era abituato a tutto questo e non poche volte si era trovato a rimpiangere la quiete del monastero con lo stagno delle carpe, o la placida tranquillità fra le mura profumate d’incenso di Al-Nadir.
Quasi comprendendo il suo disagio, una volta smontato dal cammello, Virgildo gli batté una mano sulla spalla:
“Ti ci abituerai.”, gli disse con un sorriso.
“Andiamo a darci una ripulita, - disse Rolando, mentre i servi si prendevano cura degli animali – poi ti portiamo dal capitano.”
Raggiunsero il bagno, un edificio che ricordava, molto più in piccolo, le antiche terme romane, sul cui sito forse sorgeva. Una volta entrati, furono accompagnati dagli inservienti in uno stanzino, chiuso da una tenda, al cui centro c’era una sorta di grosso mastello di legno, pieno di acqua calda. Rimasti soli e chiusa la tenda, i tre si spogliarono, Rolando e Virgildo con grande disinvoltura, frate Martino invece con un po’ di imbarazzo, per il fatto di trovarsi nudo con due sconosciuti, i quali dal canto loro presero subito a scherzare fra loro, bagnandosi e insaponandosi la schiena a vicenda.
Evitando di soffermarsi con lo sguardo sulle due nudità accanto a lui, frate Martino si lavò in fretta e furia, uscendo dal vascone e sedendosi su uno sgabello in disparte ad asciugarsi, mentre Virgildo e Rolando se la prendevano comoda, ridendo e scherzando da bravi commilitoni uniti da una lunga militanza in comune. Ogni tanto si scambiavano qualche battuta in arabo, accompagnandola poi con fragorose risate, che mettevano il povero frate ancora più a disagio.
Finalmente, quella tortura finì: i due cavalieri uscirono dalla vasca, si asciugarono e si rivestirono con degli indumenti puliti, che nel frattempo erano stati loro portati.
Fatta una seconda sosta nella mensa per rifocillarsi, arrivò il momento di andare dal capitano. Salirono un ampio scalone di pietra e, giunti in una vasta anticamera gremita di funzionari e cavalieri:
“Aspettate qui.”, disse Rolando, e si diresse con passo sicuro verso una porta, che gli venne prontamente aperta dalle guardie che la sorvegliavano.
Tutto questo apparato intimidì ulteriormente frate Martino, che ancora una volta si rammaricò di non trovarsi più nell’anonima schiavitù del caravanserraglio. Finalmente, ricomparve Rolando, aveva la faccia cupa.
“Vuole parlare da solo con te. – disse a frate Martino, prendendolo per un braccio e dirigendosi verso la porta da cui era appena uscito – Mi raccomando, cerca di essere rispettoso e rispondi senza mentire a tutte le sue domande.”, concluse, lasciandolo da solo, mentre le guardie lo facevano entrare.
Il salone in cui venne introdotto era ampio e lussuoso, ma il giovane teneva gli occhi bassi e poco o niente poté ammirare dei ricchi arredi.
“Vieni avanti.”, gli disse una voce giovanile, e frate Martino avanzò, fino ad arrivare davanti ad un’ampia scrivania.
Seguì un lungo silenzio: il giovane non osava quasi respirare, mentre si sentiva addosso gli occhi dell’altro, che lo scrutavano.
“Bene, bene, bene… - disse il capitano con tono divertito, e si alzò, aggirando il tavolo e andandogli vicino – A quanto pare, ci si rivede.”
A quelle parole, frate Martino sollevò gli occhi e fece un passo indietro con un grido strozzato: davanti a lui si ergeva Wolfango di Rottadicollo, fiero e imponente nella sua veste da Capitano dei Cavalieri di San Giovanni!
“Voi…”, balbettò il giovane, terrorizzato.
Era come se tutti i suoi vecchi fantasmi lo avessero alla fine raggiunto per chiedere vendetta.
“Già, io. Ne è passato di tempo, eh, Martino?”
Frate Martino cercò di deglutire il groppo che aveva in gola e gli toglieva il respiro.
Wolfango si sedette ad uno scranno.
“Guardami”, gli ordinò.
E frate Martino lo guardò, meravigliandosi come il ragazzino laido e debosciato di un tempo fosse diventato quel giovane aitante e così straordinariamente avvenente, con i morbidi capelli, che gli scendevano ondulati sulle spalle e la barbetta rada a contornargli le guance.
“Perché sei scomparso dal castello?”, gli chiese e c’era quasi una nota dolorosa nella sua voce.
“Alterio venne ad avvertirmi che avevate minacciato di… di raccontare a vostro padre quello che… facevamo… Ho avuto paura, messere… e sono scappato.”
“Raccontare a mio padre… che stupido…”, esclamò Wolfango, senza far capire a chi alludesse.
“Dove sei andato dopo e come sei arrivato fin qui?”, chiese poi.
Allora Frate Martino gli raccontò di come si fosse rifugiato in un monastero, dopo aver vagato a lungo nella foresta, di come poi si fosse imbarcato su una nave e catturato dai pirati che lo avevano venduto al padrone del caravanserraglio, dove Virgildo e Rolando lo avevano trovato.
Fu un racconto dettagliato, ma alquanto lacunoso, privo soprattutto dei particolari più scabrosi e compromettenti, che avrebbero potuto metterlo in cattiva luce.
“Hai preso i voti?”
“No, messere…”, mentì Martino, rinunciando per sempre a quel saio, che ormai gli era diventato indigesto, tanto più che il frate era morto a tutti gli effetti nel carcere del monastero.
Wolfango annuì.
“Hai… conosciuto altri… dopo di me?”, chiese poi.
Martino non vide il rossore sulle guance del suo signore, quando rispose con decisione:
“No, messere… mai.”
Wolfango annuì di nuovo.
“Vuoi che ti rimandi a casa con la prima nave?”, chiese.
“No! – fu il grido spontaneo – No, messere… ormai non ho più una casa…
Vorrei rimanere con voi… per servirvi, se me lo permettete, per essere il più umile dei vostri servi.”, e piegò il ginocchio a terra.
“Perché no? – fece Wolfango, dopo averci pensato a lungo – Ho giusto bisogno di un valletto personale. Vai di là e chiama Rolando.”
“Ho interrogato a lungo Martino, - disse al cavaliere, quando fu alla sua presenza – ho riconosciuto la sua onestà e ho deciso di tenerlo come mio valletto personale. Accompagnatelo dall’economo perché gli fornisca abiti e quant’altro. Vai con lui, - si rivolse a Martino – e poi torna da me.”

(continua)
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