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Storie della storia del mondo 3: L'Arca di Noè - 3


di adad
17.10.2023    |    352    |    0 9.3
"I nostri due eroi non potevano fare a meno di partecipare a questo clima di generale ottimismo, per quanto nutrissero non pochi dubbi su cosa avrebbero fatto,..."
In piena tempesta emotiva, Jafet corse via, nascondendosi negli angoli più bui. Aveva sborrato nella bocca di un uomo, con il dito di un altro ficcato nel culo!...
Come era potuto succedere una cosa del genere? Non avrebbe dovuto neanche avvicinarsi a quella gente lì, progenie maledetta di Caino, e invece… invece aveva permesso a quei due degenerati di farlo godere! Oh, se l’avesse saputo suo padre… se l’avessero saputo i suoi fratelli… sua moglie! Si sentì avvampare, si sentì perso. Crollò a terra sotto il peso della colpa e a lungo rimase lì a gemere silenziosamente, nella sua anima, incapace di articolare gesti o pensieri. E sì che Cam lo aveva messo in guardia: perché non lo aveva ascoltato?
Alla fine, strisciando e gattonando sullo strato di fieno del pavimento, tornò dove dormivano i familiari e si aggomitolò in disparte, sperando di dormire. Ma il sonno non gli fu amico quella notte.
I giorni successivi lo misero a dura prova, non solo per la consapevolezza che lo divorava del suo abominio, ma anche perché una ventata di rivolta generale sembrava attraversare il piccolo popolo dell’arca. E questo mise a dura prova pure gli altri.

Erano passate diverse settimane e la pioggia non accennava a smettere; gli umani avevano i nervi a fior di pelle e bastava niente per far scattare liti furibonde fra padre e figli, fra suocera e nuore, tra fratello e fratello, fra mogli e mariti. Gli animali erano a loro volta allo stremo: nessuno ne poteva più di stare chiuso lì dentro al buio, a respirare aria fetida e a mangiare biada e fieno, quando nel recinto accanto c’erano pasti succulenti. I leoni ruggivano impazziti, annusando l’odore appetitoso di tanta buona carne fresca… i leopardi affilavano gli artigli, progettando di fare un’incursione nello stabbio delle gazzelle, che a loro volta tremavano, rodendosi il fegato, non sapendo dove fuggire in quello spazio ristretto.
I castori vennero sorpresi mentre cercavano di aprirsi un passaggio nel fasciame dell'Arca, rischiando di mandare a scatafascio l'intera opera del Signore. E tutti a ruggire, belare, frinire, singultare, sghignazzare, barrire, muggire, bramire, gracidare: tutti gli animali, insomma, a urlare: “Basta, basta, basta.”, ognuno nella sua lingua… perfino le lumache, che non avevano voce.
Solo i due froci se ne stavano tranquilli: di giorno lavoravano come gli altri fino allo stremo e di notte sfogavano la loro frustrazione, dandoci dentro con i loro giochetti erotici sempre più spinti, evitando il più possibile gli altri umani, che quasi non gli rivolgevano più neanche la parola, limitandosi ad allungargli di malavoglia una fetta di pane nero, quando era il momento, o una ciotola di chissà che brodaglia.
Jafet in particolare sembrava evitarli come la morte e quando gli capitava di incontrarli. abbassava gli occhi e scantonava via.
Ma Alef e Clem non ci facevano caso più di tanto: per certi versi lo capivano anche, ma non potevano farsi carico dei suoi problemi, ne avevano già abbastanza dei propri. Che ognuno si grattasse la sua rogna; in fin dei conti, nessuno lo aveva cercato o importunato. Si era presentato lui nel loro covile e si era lasciato manipolare: nessuno gli impediva di andarsene quando Clem glielo aveva preso in bocca o quando Alef gli aveva cacciato un dito nel culo. E invece era rimasto e se l’era anche goduta… altroché se se l’era goduta: il povero Clem era quasi soffocato per la bocconata di sborra che quello gli aveva scaricato in bocca. Come si è detto, il lavoro diventava ogni giorno più pesante, dovendo anche calmare gli animali, tenerli buoni e sorvegliarli, oltre che accudirli, e i due non si sottraevano a niente, forse erano quelli che lavoravano di più.
. La notte, però… la notte era dedicata per buona parte a soddisfare i bisogni l’uno dell’altro. E ogni volta erano nuove scoperte, nuovi piaceri.
Intendiamoci, per noi moderni tante cose sono pane quotidiano, ma a quei tempi, ai tempi dell’Arca di Noè, la gente era ancora ai primi rudimenti del sesso e anche i froci, che per molti versi siamo sempre stati all’avanguardia.
Una notte, Alef si era messo a cavalcioni sulla faccia di Clem, con il buco del culo giusto all’altezza della sua bocca, e con le mani si teneva aperte le natiche, onde permettere all’amico di raggiungere più agevolmente l’obiettivo.
D’un tratto, mentre, ansimando e sospirando, esortava l’amico a fargli sentire più in profondità la sua lingua di serpente, tutto d’un tratto, forse senza sapere neanche lui cosa facesse, in preda com’era ad un autentico furore erotico, Alef si chinò, afferrò l’uccello turgido di Clem e se lo cacciò tutto in bocca, prendendo a succhiarlo e slurparlo come un forsennato. Clem neanche se ne accorse, se non per la vampata rovente che lo investì e gli mise il sangue ancor più in ebollizione.
Gli artigliò, allora, le natiche, conficcandogli le unghie nella pelle, e tiratele più verso di sé, cominciò a slinguargli, mordergli, baciargli, limonargli il buco e tutto il circondario con una foga mai vista. Rispondendo alla quale, Alef prese a pomparlo con maggior vigore, strizzandogli, tirandogli e torcendogli nel contempo le palle gonfie. La commistione di dolore e piacere, se non li fece urlare, li spinse entrambi del tutto fuori controllo, in una condizione di sensualità allo stato puro, di cui non conservarono nessuna consapevolezza. E nemmeno se ne resero conto, quando li colse l’orgasmo: Clem grugnendo riempì all’improvviso la bocca di Alef di sperma colloso, che quello, però, si lasciò sfuggire tutto dalle labbra, inesperto com’era, facendoglielo colare lungo la canna dell’uccello, sulle palle e sul folto ciuffo del pube; Alef, sborrandogli a sua volta a lunghi schizzi sul petto e sulla pancia.

Così procedevano i giorni e le notti nel chiuso dell’Arca, mentre la pioggia continuava a scrosciare sulle assi dilavate. La tensione era sempre più palpabile, soprattutto nei confronti dei due estranei, che ormai facevano vita per conto loro. Dopo altre insistenze ugualmente inascoltate, Cam si era rassegnato all’inazione di Jafet, e come tutti gli altri aspettava che il diluvio finisse per potersene liberare. Non sappiamo perché non andasse a parlare lui stesso con il padre per denunciare le nefandezze che i due commettevano ogni notte, probabilmente perché si vergognava di ammettere di averli spiati, o temeva di esserne rimproverato.
Più comprensibile è il motivo per cui Jafet non agiva: c’era un peccato all’origine della sua inazione, c’era quel piacere insospettato che aveva provato nel fugace incontro notturno: un piacere abominevole, certo, ma non per questo meno reale. Un piacere il cui ricordo, dopo i primi giorni, lo faceva fremere ogni volta di più, quando ci ripensava.
E fu così che, dopo una lotta tormentosa con se stesso, Jafet riprese ad allontanarsi dal coniugale giaciglio nel cuore della notte e a scivolare verso quello dei due intrusi, facendosi ogni volta più vicino, via via che l’eccitazione prevaleva sui sensi di colpa. Raggiunta la postazione, si rannicchiava nell’angolo più buio e rimaneva in ascolto: ogni volta più oppresso dalla consapevolezza della sua colpa, ma ogni volta più elettrizzato dalle immagini che i loro sussurri, i gemiti e i sospiri gli suscitavano nella mente. Il cazzo gli si drizzava, pur contro la sua volontà, e lui alla fine si arrendeva alla lussuria, carezzandosi, mollemente, ad occhi chiusi, cullato dalla pioggia insistente e dai bisbigli dei due amanti.
Non veniva, però, perché il Signore aveva proibito di spargere il seme al di fuori del ricettacolo femminile. Ma questi orgasmi interrotti e repressi all’ultimo momento, non facevano che esasperare ancora di più l’animo già tormentato del povero Jafet.. La notte, però… la notte era dedicata per buona parte a soddisfare i bisogni l’uno dell’altro. E ogni volta erano nuove scoperte, nuovi piaceri.
Intendiamoci, per noi moderni tante cose sono pane quotidiano, ma a quei tempi, ai tempi dell’Arca di Noè, la gente era ancora ai primi rudimenti del sesso e anche i froci, che per molti versi siamo sempre stati all’avanguardia.
Una notte, Alef si era messo a cavalcioni sulla faccia di Clem, con il buco del culo giusto all’altezza della sua bocca, e con le mani si teneva aperte le natiche, onde permettere all’amico di raggiungere più agevolmente l’obiettivo.
D’un tratto, mentre, ansimando e sospirando, esortava l’amico a fargli sentire più in profondità la sua lingua di serpente, tutto d’un tratto, forse senza sapere neanche lui cosa facesse, in preda com’era ad un autentico furore erotico, Alef si chinò, afferrò l’uccello turgido di Clem e se lo cacciò tutto in bocca, prendendo a succhiarlo e slurparlo come un forsennato. Clem neanche se ne accorse, se non per la vampata rovente che lo investì e gli mise il sangue ancor più in ebollizione.
Gli artigliò, allora, le natiche, conficcandogli le unghie nella pelle, e tiratele più verso di sé, cominciò a slinguargli, mordergli, baciargli, limonargli il buco e tutto il circondario con una foga mai vista. Rispondendo alla quale, Alef prese a pomparlo con maggior vigore, strizzandogli, tirandogli e torcendogli nel contempo le palle gonfie. La commistione di dolore e piacere, se non li fece urlare, li spinse entrambi del tutto fuori controllo, in una condizione di sensualità allo stato puro, di cui non conservarono nessuna consapevolezza. E nemmeno se ne resero conto, quando li colse l’orgasmo: Clem grugnendo riempì all’improvviso la bocca di Alef di sperma colloso, che quello, però, si lasciò sfuggire tutto dalle labbra, inesperto com’era, facendoglielo colare lungo la canna dell’uccello, sulle palle e sul folto ciuffo del pube; Alef, sborrandogli a sua volta a lunghi schizzi sul petto e sulla pancia.

Così procedevano i giorni e le notti nel chiuso dell’Arca, mentre la pioggia continuava a scrosciare sulle assi dilavate. La tensione era sempre più palpabile, soprattutto nei confronti dei due estranei, che ormai facevano vita per conto loro. Dopo altre insistenze ugualmente inascoltate, Cam si era rassegnato all’inazione di Jafet, e come tutti gli altri aspettava che il diluvio finisse per potersene liberare. Non sappiamo perché non andasse a parlare lui stesso con il padre per denunciare le nefandezze che i due commettevano ogni notte, probabilmente perché si vergognava di ammettere di averli spiati, o temeva di esserne rimproverato.
Più comprensibile è il motivo per cui Jafet non agiva: c’era un peccato all’origine della sua inazione, c’era quel piacere insospettato che aveva provato nel fugace incontro notturno: un piacere abominevole, certo, ma non per questo meno reale. Un piacere il cui ricordo, dopo i primi giorni, lo faceva fremere ogni volta di più, quando ci ripensava.
E fu così che, dopo una lotta tormentosa con se stesso, Jafet riprese ad allontanarsi dal coniugale giaciglio nel cuore della notte e a scivolare verso quello dei due intrusi, facendosi ogni volta più vicino, via via che l’eccitazione prevaleva sui sensi di colpa. Raggiunta la postazione, si rannicchiava nell’angolo più buio e rimaneva in ascolto: ogni volta più oppresso dalla consapevolezza della sua colpa, ma ogni volta più elettrizzato dalle immagini che i loro sussurri, i gemiti e i sospiri gli suscitavano nella mente. Il cazzo gli si drizzava, pur contro la sua volontà, e lui alla fine si arrendeva alla lussuria, carezzandosi, mollemente, ad occhi chiusi, cullato dalla pioggia insistente e dai bisbigli dei due amanti.
Non veniva, però, perché il Signore aveva proibito di spargere il seme al di fuori del ricettacolo femminile. Ma questi orgasmi interrotti e repressi all’ultimo momento, non facevano che esasperare ancora di più l’animo già tormentato del povero Jafet.

Una sera, Clem appariva più infoiato del solito e senza rispettare i soliti preliminari, appena nudo si mise a quattro zampe e, voltosi ad Alef:
“Dai, mettimelo, - lo pregò – voglio sentirti tutto dentro di me… voglio sentire il tuo cazzo che mi devasta il culo… ti prego… scopami, non perdere tempo.”
Queste parole infuocate, sia pur dette in un bisbiglio, giunsero alle orecchie di Jafet, che si agguantò il randello duro e strisciò più avanti per sentire meglio.
Alef non aveva certo bisogno di farsi pregare: sfilatosi in un lampo la tunichetta ormai lacera e sbrindellata, gli si addossò e stava giusto per infilarglielo, quando come un lungo sospiro attraversò ogni fibra dell’Arca, seguito da un profondo, innaturale silenzio. Stupito, Alef si raddrizzò, guardandosi intorno, e in quel momento un leggero chiarore penetrò dal minuscolo oblò, diffondendosi intorno spettrale.
“La luna… - mormorò Alef, incredulo – è uscita la luna!”
Clem si riscosse dalla trance erotica in cui si trovava e:
“Non piove più!”, esclamò.
Infatti, come il Signore aveva disposto, dopo quaranta giorni la pioggia aveva smesso di cadere e un raggio di luna si era fatto strada nella pesante coltre di nuvole, che ancora gravava nel cielo.
Dimentichi per un istante di quello che stavano per fare, i due si abbracciarono felici e fu così che, girando intorno gli occhi, scorsero poco distante Jafet che li guardava con la camiciola rialzata in vita e l’uccello turgido stretto nel pugno.
A quella inaspettata visione, una ventata di libidine tornò a travolgerli.
“Vieni, unisciti a noi.”, disse Alef senza esitazione, come se già si aspettassero quella visita e si protese verso il nuovo arrivato, afferrandolo per lo scroto peloso.
“Sì, vieni…”, sibilò Clem, più suadente del serpente nel giardino dell’Eden.
“Clem ha detto che hai un bellissimo uccello…”, insinuava intanto Alef palpandogli a piene mani l’organo turgido, che reagiva con copiose colate di sugo.
Jafet si lasciava trascinare senza reagire. Qualcosa nel suo animo avrebbe voluto resistere, avrebbe voluto che fuggisse via da quei due demoni perversi, ma l’eccitazione ormai gli aveva offuscato il cervello e lui si avvicinava al baratro con placida, quanto cupida rassegnazione, come un agnello al sacrificio.
“Hai le palle incordate, - osservò ancora Alef – hai bisogno di svuotarti, prima che scoppino; ci pensiamo noi… o magari Clem. Hai già visto quant’è bravo con la bocca… magari potresti assaggiare il suo culo…”
“Sìììì…”, mugolò Clem posizionandoglisi davanti a quattro zampe, con il didietro rivolto verso di lui.
“Tu non hai mai gustato il la via posteriore… - proseguiva Alef – Ti piacerà, vedrai…”
E, impugnato saldamente l’uccello di Jafet, lo guidò verso l’orificio fremente dell’amico. Quando Clem si sentì sfiorare il buco dalla cappella viscida, quasi temesse un ripensamento, rinculò di scatto ingoiandone con un sospiro una buona metà. Jafet boccheggiò, colto di sorpresa, e reagì, come tutti reagiscono la prima volta che assaggiano il culo:
“Che caldo...”, esclamò, poi, di sua iniziativa, lo afferrò per i fianchi e con un colpo di bacino glielo affondò del tutto nel condotto.
Clem guaiolò e si contorse, sentendosi riempire dal pistone nerboruto, che senza por tempo in mezzo cominciò a scorrergli dentro e fuori il deretano, come neanche Alef aveva mai fatto.
“Non può essere così bello… - ansimava Jafet tra l’incredulo e l’infoiato – non può essere così bello…”, e continuava a cavalcare gagliardamente il povero Clem con tutta la biblica vigoria dei suoi lombi.
Alef fissava affasciato l’amico che si torceva sotto gli affondi del suo chiavatore, ne assorbiva i lamenti, che si mutavano in ulteriore eccitazione, finché non resistette oltre: gli si posizionò davanti e gli affondò l’uccello nella gola fino alle palle. Ma si ritrasse subito, per impedire che Clem soffocasse, e cominciò a fotterlo in bocca.
Posseduto nell’uno e nell’altro orificio, a Clem non rimase che abbandonarsi al piacere di sentirsi la vacca passiva di quei due formidabili maschi, e si afferrò il cazzo, menandoselo a sua volta in sintonia con gli altri due, che lo stantuffavano davanti e di dietro.
Chi fu il primo a venire? È difficile dirlo. Forse Jafet… o forse Alef… Possiamo solo dire che fu un orgasmo corale, la sborrata di uno fu la sborrata di tutti e Clem si ritrovò nel culo e nello stomaco molto più seme di quanto lui stesso ne avesse eiaculato per terra.
Quando cominciarono a riprendersi poco dopo, erano tutti e tre riversi sul fieno.
“Cosa ho fatto?”, gemette Jafet, che già cominciava a sentire i primi pungenti morsi della colpa.
Ma Alef si chinò su di lui e, depostogli un bacio leggero sulle labbra:
“Hai fatto quello che noi ti abbiamo spinto a fare, - gli disse con dolcezza – il tuo abominio ricadrà su di noi.”

Valsero queste parole a placare il suo tormento? Non lo sappiamo. Sappiamo però che le notti successive Jafet fu spesso ospite del loro letto e partecipe attivo dei loro giochi amorosi.
Intanto, le acque cominciavano a ritirarsi e già Noè aveva inviato un corvo, che però si era ben guardato dal tornare a ingozzarsi di biada in quel manicomio, quando c’era quell’abbondanza di carne, che galleggiava in giro. Noè aveva allora mandato una colomba e quando quella era tornata con un ramoscello d’ulivo, l’atmosfera era cambiata a bordo dell’Arca: l’ottimismo era tornato ad affiorare non solo negli uomini, ma anche negli animali, ormai sicuri che sarebbero presto tornati alle antiche abitudini di vita.
I nostri due eroi non potevano fare a meno di partecipare a questo clima di generale ottimismo, per quanto nutrissero non pochi dubbi su cosa avrebbero fatto, una volta scesi dall’Arca, dove sarebbero andati. Rimanere con gli altri? E come avrebbero potuto, vista l’ostilità con cui li avevano accolti e trattati fin dall’inizio? Fu Jafet a dare un taglio alle loro incertezze.
“Dovete fuggire!”, disse loro concitatamente una sera, raggiungendoli nel loro giaciglio.
“Cosa dici?”, chiese Alef.
“Dovete fuggire!”, ripeté Jafet
“Perché?”
“Hanno deciso di uccidervi. Quando le acque si saranno ritirate, prima di liberare gli animali, vi uccideranno e io non potrò fare niente per salvarvi.”
“Come fai a saperlo?”, chiese Clem.
“Ne hanno parlato oggi, durante il pasto. Sono tutti d’accordo: mio padre i miei fratelli… le donne… Non vogliono che qualcuno li rimproveri un domani di aver salvato anche la vostra razza… Mi dispiace, amici miei, ma dovete fuggire… subito!”
“E come facciamo? – osservò Clem – l’acqua è ancora alta…”
“Vi ho preparato una barchetta di paglia, non è granché, ma starà a galla. Ci ho messo dentro anche qualche provvista. Presto, venite.”
“Ma cosa dirai a Noè e agli altri, quando non ci vedranno al lavoro?”
“Dirò che vi hanno mangiato i leoni… Sono molto agitati in questo periodo. Datemi le vostre tuniche, macchiatele di sangue e le getterò nel loro recinto.”
Alef e Clem si denudarono, si fecero qualche taglietto qua e là, sporcando le tuniche di sangue, e gliele diedero.
“Presto, adesso.”, li esortò Jafet e, sgusciando fra i cumuli di fieno, li guidò al portellone da cui scaricavano fuori i liquami. Lo aprì silenziosamente, poi tirò fuori dal nascondiglio una barchetta di paglia e la fece scivolare sull’acqua.
“Addio, amici miei, - disse abbracciandoli – sono sicuro che il Signore vi proteggerà”
“Vieni con noi…”, suggerì Alef.
“Non posso. Io e i miei fratelli siamo destinati a ripopolare la Terra.”

Quando sorse il sole, l’Arca era scomparsa all’orizzonte e loro erano soli in quell’immenso mare. Quanti giorni rimasero a bordo di quella minuscola barca, che minacciava ogni momento di affondare? Portati dal vento e da misteriose correnti, centellinando quel poco che Jafet aveva potuto dargli, più e più volte il sole attraversò il cielo sopra le loro teste, più volte la luna mostrò il suo volto ridente: erano ormai allo stremo, quando la barca si arenò e i due videro aprirsi davanti ai loro occhi un terreno ancora fangoso, ma fuori dall’acqua, dove già spuntavano teneri fili d’erba. Più in là, una macchia di alberi che erano sopravvissuti al diluvio e alcuni ancora carichi di frutti: una patina di fango li copriva, ma sarebbe bastata la prima pioggia a lavarli.
I due scesero nell’acqua alta fino alle caviglie e si inoltrarono sul terreno asciutto, trascinandosi dietro la barchetta, ormai quasi disfatta.
Colsero un frutto, lo pulirono alla meglio e lo addentarono: sapeva di fango, ma aveva un gusto celestiale.
“Qui costruiremo una città, - disse Alef, guardandosi attorno – la nostra città! E ci faremo venire tutti quelli come noi e la chiameremo Sodoma, che nell’antica lingua significa: quelli a cui piace inchiappettarsi fra di loro e sborrarsi in bocca.”
“Magnifico! – esultò Clem – così saremo sodomiti e la finiranno di insultarci, chiamandoci froci. Peccato che non ci sia anche Jafet!”, sospirò.
“Già, peccato. Ma verranno i suoi figli, non preoccuparti, e alla fine saremo noi a popolare la Terra.”

FINE













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