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Una situazione imbarazzante


di adad
20.04.2023    |    9.838    |    11 9.2
"Una persona che dipende da te? Gli tolse il cellulare dalla mano, lo spense e lo ripose nella tasca della giacca..."
[N.B. Il racconto che segue non presenta scene o descrizioni di sesso spinto: chi ne sentisse il bisogno è cortesemente pregato di andare oltre]

Clevis si avvicinò al banco del check-in con aria sorridente e porse all’impiegata tutta la sua documentazione. La ragazza guardò con ammirazione il bel giovane elegante, diede un’occhiata al biglietto, timbrò dove doveva timbrare e tutto il resto, poi glieli restituì con un cordiale:
“A lei, signore, buon viaggio”.
Stringendo in una mano il biglietto e la carta d’imbarco, mentre con l’altra si tirava dietro un piccolo trolley, bagaglio a mano, Clevis si diresse al gate che l’altoparlante stava annunciando in quel momento:
“I viaggiatori diretti a New York sono pregati di dirigersi al gate numero cinque.”, ripetuto in inglese, tedesco, spagnolo e altre lingue più o meno sconosciute.
Accostatosi al varco, Clevis fissò per un attimo il bel poliziotto in divisa, che lo fissava dall’altra parte del passaggio, poi abbassò gli occhi, arrossendo leggermente, e depose il trolley sul nastro trasportatore che scompariva all’interno dello scanner, si tolse l’orologio e l’anello, li depose nell’apposito contenitore e varcò con cuore leggero la fatidica forca caudina. Ma non fece in tempo a fare un passo dall’altra parte, che un acuto beeep beeep beeep gli lacerò le orecchie e l’anima.
Si arrestò sconcertato e fissò con gli occhi sbarrati il bel poliziotto aeroportuale che si affrettava a raggiungerlo, serio in volto.
“Si fermi, signore, - gli disse – ha addosso oggetti di metallo? Magari le chiavi?”
“N…o…”, balbettò Clevis, tastandosi le tasche dei pantaloni: del resto era sicuro di averle messe con il resto nella valigia.
“Forse la catenina?”, suggerì il poliziotto, indicando il filo d’oro attorno al suo collo.
Gesù! Come aveva fatto a non pensarci? Se la tolse e la depose nel contenitore assieme al resto. Fece un passo indietro, ma appena si ritrovò sotto l’implacabile metal detector, un ancor più acuto beeep beeep beeep tornò a trapassargli l’anima.
Vide, con la coda dell’occhio, un secondo poliziotto che si avvicinava al varco.
“Ci sono problemi?”, chiese al primo.
“Non so, commissario, - disse quello, senza staccare gli occhi da Clevis – il signore dice di non avere addosso oggetti metallici, ma il metal continua a segnalare qualcosa.”
“Senti, Vittorio, - disse, allora, il commissario – qui stiamo bloccando il passaggio. Facciamolo accomodare di là e vediamo cosa ha sotto i vestiti.”
Il poliziotto annuì e fece cenno a Clevis di prendere le sue cose e seguirlo in una saletta appartata.
“Senta, - disse Clevis – le giuro che non ho niente… per favore non mi faccia perdere l’aereo…”
“Mi segua, signore, - disse, però l’altro – facciamo in fretta e vedrà che riuscirà a prendere il suo aereo.”
“Ma non ho niente, glielo giuro…”
“Mi segua.”, ripeté il poliziotto, con tono adesso più duro.
“Mi lasci andare… non ho niente con me…”, adesso Clevis quasi piangeva.
“Se non ha niente, lo vediamo subito. Le facciamo togliere i vestiti e tutto sarà chiarito.”
“Ma io…”
Fu allora che un pensiero le attraversò la mente come un fulmine… le facciamo togliere i vestiti… Oddio!.... Oddio!... Clevis avvampò e subito dopo sentì il sangue defluirgli dalle vene. Le facciamo togliere i vestiti… Barcollò. Il poliziotto fu rapido ad afferrarlo per un braccio e sostenerlo.
“Si sente bene?”, chiese, indirizzandolo verso lo stanzino delle perquisizioni.
Clevis si lasciò condurre docilmente. L’angoscia lo attanagliava, al punto che non riusciva quasi a respirare. Una volta dentro, il poliziotto chiuse la porta e lo fece sedere su una panca.
“Stia tranquillo, - gli disse in tono adesso premuroso – andrà tutto bene. Se non ha nulla da nascondere, la lasceremo andare subito… Guardi l’accompagnerò io stesso all’aereo.”
Clevis scosse la testa.
“Lei non capisce…”, mormorò a fior di labbra.
“Io mi chiamo Vittorio. - continuò l’altro, che probabilmente non lo aveva neppure udito – Vuole un bicchiere d’acqua?”
“Grazie”
Clevis si sentiva effettivamente la gola asciutta. Il poliziotto tornò e gli porse un bicchiere di carta colmo d’acqua fresca, che lui ingollò tutta d’un sorso, restando poi imbambolato con il bicchiere vuoto in mano. Il poliziotto glielo tolse e lo gettò nel cestino. In quel momento entrò il commissario.
“Allora?”, fece.
“Aspettavamo lei, commissario.”
“Bene. Procediamo. Si alzi, lei.”
Il poliziotto lo prese per il gomito e lo aiutò ad alzarsi.
“E’ molto provato, commissario.”, disse.
“Vuol dire che gatta ci cova. Su, signor Rogetti, - continuò, leggendo il nome sul passaporto – inizi a spogliarsi.”
Come un automa, Clevis si tolse la giacca, che consegnò al poliziotto: questo guardò nelle tasche esterne e interne, palpò nei punti critici, poi scosse la testa alla volta del commissario e la mise via.
“La camicia.”
Ancora una volta, l’esito fu negativo.
“Si tolga le scarpe e i pantaloni.”, ordinò il commissario.
Con un brivido e non solo d’imbarazzo, il giovane si sfilò le scarpe, che furono oggetto di un attento esame, e poi i pantaloni, che subirono la stessa sorte.
“Niente, commissario.”
“Si tolga il resto.”
Clevis gli si volse con un gemito:
“No, la prego…”
“Togliti quelle cazzo di mutande!”, tuonò il commissario, esasperato più che altro dall’esito finora fallimentare della perquisizione.
Al che, abbassando la testa e serrando gli occhi, da cui sfuggivano lacrime
disperate, il giovane si portò le mani ai fianchi, agganciò coi pollici l’elastico degli
slip e lentamente se li abbassò sotto le natiche.
“Ma che diavolo!...”, esclamò il commissario, avvicinandosi per guardare meglio.
Il poliziotto, che si stava infilando dei guanti di lattice per procedere ad un’eventuale ispezione più approfondita, a quelle parole si voltò di scatto e si avvicinò pure lui.
“Cosa diavolo è quell’affare?”, chiese il commissario.
“Si direbbe una gabbietta di castità, commissario…”
Clevis, infatti, indossava una cintura di castità di metallo scuro, una di quelle di quelle che costringono il cazzo fino a ridurlo un bottoncino nero alla sommità delle palle.
“Una cosa?”, si stupì il commissario, avvicinandosi per guardare meglio.
“Una gabbietta di castità. – ripeté il poliziotto, avvicinandosi pure lui – Viene messa agli uomini per impedire che abbiano erezioni e… altre cose.”
“Ma è mostruoso! Ma perché?”
“Per privarlo della sua virilità. È uno strumento di tortura, - spiegò ancora il poliziotto – che il dominante impone al suo sottomesso come forma di controllo.”
Il commissario scosse la testa.
“Roba da matti! Basta, non voglio sapere altro. È di metallo, immagino.”
Il poliziotto la tastò con la mano guantata, senza perdere l’occasione di dargli una leggera strizzata alle palle.
“Sì, è d’acciaio.”, confermò.
“Beh, che se la tolga, se vuole prendere l’aereo. – intimò il commissario andando verso la porta - Una gabbietta di castità!... Ma roba da matti!, e uscì.”
Il poliziotto tornò a rivolgersi a Clevis, che se ne stava lì impalato, con gli slip calati sotto le palle, la testa bassa e le braccia incrociate sul petto.
Era ancora in preda all’imbarazzo, ma era indubbio che l’umiliazione che stava vivendo aveva un che di stimolante per la sua natura sottomessa. Come, del resto, erano indubbi i brividi perversi da cui il poliziotto si sentiva stranamente pervadere. Era consapevole che, per il suo fisico, il suo ruolo, la divisa che indossava, doveva avere un indiscutibile ascendente sull’altro e la cosa in un certo senso lo elettrizzava.
“Sei… uno schiavo, come dite voi, vero?”, chiese a Clevis, piazzandoglisi davanti e dandosi un’involontaria sprimacciata al pacco, che la divisa aderente metteva in risalto.
“Sì… signore.”, rispose quello, sempre con gli occhi bassi, forse per la vergogna che provava, forse perché quello era l’atteggiamento che il suo ruolo gli imponeva, quando riconosceva di trovarsi davanti a un dominante.
“Hai un padrone?... o una padrona?”
“Un padrone, signore…”
“E’ stato lui a metterti questa?”, chiese ancora, afferrandogli le palle.
Non avrebbe voluto, non era interessato né agli uomini, né alla dominazione, ma qualcosa lo stimolava, qualcosa di diabolico, che inconsciamente gli pizzicava l’uccello.
“Sì, signore.”, rispose Clevis, sollevando lo sguardo all’altezza dell’inguine del
poliziotto, di cui cominciava a sentire il fascino magnetico.
Sentiva i brividi ancora impalpabili che gli correvano sotto la pelle. Sapeva riconoscere un Alpha quando gli si trovava davanti e quel poliziotto lo era fino al midollo.
“Devi togliertela, - disse secco il poliziotto, mollandogli lo scroto – altrimenti non ti lasciano partire.”
“Mi aiuti, signore. – lo implorò Clevis, avvertendo in lui una traccia, per quanto debole di comprensione - Devo partire… devo prendere quell’aereo… devo raggiungere il mio padrone a New York…”
“Non posso farci niente. Anche se volessi. È il regolamento aeroportuale. Devi toglierti la gabbietta.”
“Non è possibile, signore…”
“Te lo ha proibito, forse?”
“Ha lui la chiave…”
“Sei in un bel pasticcio, allora. – ghignò il poliziotto – Se ti togli la gabbietta il tuo padrone ti molla; se non te la togli, non puoi raggiungerlo… Mi sa che sei fottuto.”
“Posso… posso telefonargli?”, chiese Clevis speranzoso, indicando la giacca, nella cui tasca aveva il cellulare.
Senza dire niente, il poliziotto lo prese e glielo porse. Il giovane compose il numero. Si sentì squillare a lungo, poi una voce dura, che giunse chiara fino alle orecchie di Vittorio:
“Pronto. Cosa cazzo vuoi? Non sei ancora partito?”
“C’è un problema, signore… hanno scoperto che indosso la gabbietta e non mi lasciano partire se non me la levo…”
Una risata fragorosa fu la risposta, una risata lunga, crudele. Poi, silenzio.
Clevis sollevò gli occhi a fissare il poliziotto. Era costernato. Stringeva in mano il telefono ancora acceso.
“Ha riattaccato…”, mormorò.
Vittorio provò un istintivo senso di pena: come si fa a scaricare così una persona?... una persona che dipende da te? Gli tolse il cellulare dalla mano, lo spense e lo ripose nella tasca della giacca.
A quel punto, però, qualcosa cominciò a cambiare dentro di lui: nonostante il fondo di disprezzo che fin dal primo momento aveva nutrito verso il giovane, allorché si era chiesto per quale istinto malato uno potesse accettare di ridursi ad un tale stato di degradazione personale, ecco che prese a guardarlo con un occhio diverso, quasi ne recuperasse a poco a poco la dimensione umana.
Intendiamoci, Vittorio non aveva mai nutrito interesse per il corpo maschile, né per qualsiasi forma di dominazione verso un’altra persona, neanche una donna; però non poteva negare il fascino perverso che quel giovane stava cominciando a suscitare su di lui, non solo con l’avvenenza fisica, ma anche col richiamo di pratiche appartenenti ad un mondo che lui non conosceva, se non attraverso la visione delle varie Cinquanta Sfumature, che aveva comunque guardato con distacco, sia pure con una certa eccitazione. Ma in quei casi era la donna ad sottomessa: qui si trattava di un uomo.
Guardandolo, realizzò che quel giovane, quello… schiavo, aveva un culo davvero bello, sodo e liscio, depilato come il resto del corpo. E, accidenti!, senza peli in mezzo alle gambe e con quella gabbietta che gli occultava del tutto l’organo maschile, cominciava a fargli un effetto strano… si sarebbe detto arrapante.
Un brivido di perversa libidine gli percorse la schiena, facendogli formicolare il cazzo, raggomitolato nelle mutande. Gli si avvicinò. Aveva ancora i guanti di lattice, che aveva messo poco prima in previsione di un’ispezione intima: con una mano gli prese un capezzolo e glielo torse dolorosamente, con l’altra gli agguantò una manata di culo, sprimacciandoglielo con una foga mai provata prima.
Clevis, che già aveva avvertito di trovarsi in presenza di un Alpha, quasi meglio di lui percepì le ondate di desiderio, che gli percorrevano il corpo, sentì l’odore acre del suo sudore e riconobbe l’afrore muschioso del maschio che entra in calore.
Subì con un fremito quelle attenzioni inaspettate, le riconobbe e tutto il lui si aprì, pronto ad accettare la nuova signoria, se si fosse palesata. E quasi in risposta al suo dubbio:
“Sai quello che si dice delle cose abbandonate? – fece il poliziotto con voce roca – che sono del primo che le trova. Il tuo padrone ti ha abbandonato e io ti ho trovato. Adesso sei mio. Qualcosa da obiettare?”
Clevis deglutì, quasi per nascondere la sua intima soddisfazione:
“No, signore.”, rispose.
Al che, postogli una mano sulla spalla, il poliziotto lo spinse a inginocchiarsi e gli premette l’inguine sul volto.
“Annusa, allora, l’odore del tuo nuovo padrone… annusa l’odore del suo cazzo, dovrai saperlo riconoscere fra mille, perché è l’unico che servirai d’ora in avanti.”
Lo tenne così un pezzo, a respirare l’afrore intenso che traspirava dal tessuto pesante della divisa, poi si tirò indietro.
“Rivestiti, adesso, - gli ordinò – e aspettami qui. Torno a prenderti quando finisco il turno. E se qualcuno dovesse entrare e chiederti che ci fai qui, gli dirai che stai aspettando l’agente Vittorio Castelli.”
“Sì, signore…”, rispose Clevis, seguendo con gli occhi l’imponente figura che usciva, richiudendo la porta.
Non riusciva a credere alla sua fortuna: mai, entrando in quella stanza, avrebbe osato sperare di finire nelle mani di un simile uomo. Che fosse ancora inesperto, si vedeva lontano un miglio, ma ci avrebbe pensato lui a sgrezzarlo, a insegnargli i segreti del mestiere. Quel poliziotto era un diamante grezzo e lui ne avrebbe fatto un gioiello della Corona.
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