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Frate Martino - 2


di adad
17.03.2021    |    9.550    |    8 9.1
"” “Ma frate Salterio…” “Frate Salterio può andarsene al diavolo! - sbottò l’altro, facendosi il segno della croce – Lui, intanto, se ne sta al fresco a..."
La nuova vita di frate Martino non fu facile all’inizio. L’esistenza dei monaci procedeva placida e laboriosa, secondo i dettami del Fondatore: “òra et labora”, prega e lavora.
Ora, per quanto riguarda il “labora”, tutto sommato non c’erano problemi: frate Martino era abituato a lavorare fin da piccolo e tutto sommato gli piaceva anche, nonostante quei vecchi marpioni dei monaci scaricassero sui novizi i lavori più pesanti: zappare l’orto, pulire le latrine, svuotare i pozzi neri e via discorrendo.
Ma quanto all’ “òra”… tutte quelle interminabili preghiere, i canti, i capitoli… e svegliarsi tutte le notti sul più bello del sonno e dei sogni, per andare in processione nella Cappella, a cantare e pregare, con gli occhi che gli si chiudevano dal sonno, e non riusciva a stare né in piedi né seduto… E non facevi in tempo a riaddormentarti, che dovevi svegliarti di nuovo… e la compieta e le laudi e il matuttino… Ma che se ne faceva San Calidone di tutte quelle preghiere? Non si era stufato di sentire quelle lagne tutti i giorni e tante volte al giorno?
In compenso, però, la scodella era sempre piena ad ogni pasto, anche se si svuotava sempre troppo in fretta e di rado riusciva a farsela riempire di nuovo, di nascosto, dall’aiutante del frate cuciniere. Eh sì, perché il frate cuciniere, fra’ Gesualdo, per quanto gioviale all’aspetto, grasso e rubicondo, non ti mollava neanche una briciola, in aggiunta alla razione, per quante moine gli si potessero fare; mentre il suo aiutante, frate Marcello, che essendo giovane pure lui sapeva bene con quanta velocità lavorasse lo stomaco di un ragazzo, non mancava di allungare ogni tanto di nascosto una fetta di pane o mezzo mestolo di minestra in più, appena ne aveva la possibilità.
Ma quello che pesava veramente al novello fra’ Martino era la mancanza dei giochini con Wolfango e il maestro di stalla nel fienile. Si fa presto a dire castità, ma come si fa a essere casti a sedici anni, quando l’uccello scalpita nella braghetta e basta il titillare di una pulce a fartelo drizzare?
Nel monastero, a dire il vero, di pulci ce n’erano parecchie, ma non era certo colpa loro se il cazzo di fra’ Martino conosceva ben pochi momenti di riposo, nella sua insopprimibile propensione a drizzarsi alla minima provocazione. E le provocazioni non mancavano, a cominciare dai ricordi ancora vividi che popolavano le sue notti, che stimolavano i suoi sogni “bagnati”. Ma tutto lì: il culetto vellutato di Wolfango era ormai lontano da lui le mille miglia. Chissà come era finita… chissà se aveva trovato qualcun altro con cui giocare nel fienile… e chissà che fine aveva fatto il fascinoso maestro di stalla: chiuso nel monastero, gli sembrava di vivere in tutt’altra dimensione e certe volte si chiedeva se quelle cose erano successe veramente, tanto erano remote, ovattate in una realtà puramente fantastica.
Epperò, rimaneva sempre il problema del capitone perennemente sul chi vive, problema che tentava di risolvere alla meglio con ferventi preghiere a santa Federica, che non mancava mai di venirgli in soccorso. Ma certo non poteva bastare: non ci si può contentarsi di un tozzo di pane, quando si è gustato una focaccia al miele.
Era passato ormai più di un anno e fra’ Martino toccava quasi i diciotto anni, che per quei tempi, come sappiamo corrispondevano a più dei nostri, quando una mattina, mentre dissodata una striscia di terra, in cui il frate farmacista intendeva seminare delle nuove erbe appena giunte da terre lontane:
“Frate Martino, ehi, frate Martino.”, si sentì chiamare.
Si voltò: era frate Marcello, l’aiutante cuciniere, un bietolone alto e polposo, sulle cui grazie nascoste il suo pensiero si era soffermato non poche volte, mentre rendeva omaggio a santa Federica.
“Vieni, - gli disse quello, facendogli cenno col braccio di andare con lui – sto andando alla pescheria, vieni con me.”
“Non posso, devo finire di preparare questo terreno, altrimenti frate Salterio mi dà mille Avemarie di penitenza.”
Frate Salterio era il frate farmacista. Frate Marcello scoppiò a ridere.
“Ti aiuto io a dirle, - rispose – non preoccuparti, facciamo cinquecento a testa. Dai, vieni. Ho bisogno che mi dai una mano alla pescheria: frate Gesualdo vuole che gli prenda un paio di carpe da cucinare oggi per la tavola dell’abate. Vedrai che frate Salterio. dopo averle assaggiate, ti perdonerà volentieri.”
Alla tavola dell’abate, infatti, mangiavano il priore e i frati che ricoprivano incarichi importanti nel monastero, compreso appunto il frate farmacista.
Con il sole ormai alto, la pescheria costituiva un piacevole diversivo. E poi frate Marcello era un ragazzone simpatico, con cui si scherzava volentieri. Perché no?
Appoggiò la zappa al muretto di recinzione e, asciugandosi il sudore dalla fronte, lo raggiunse, avviandosi insieme verso la pescheria.
“Non preoccuparti, - disse frate Marcello con aria complice – anche se sono destinate all’abate, cercherò di fartene arrivare un bocconcino pure a te…”
“Stavo per chiedertelo, - sorrise fra’ Martino – certe volte mi leggi nel pensiero.”
Tra una chiacchiera e l’altra giunsero alla pescheria, uno stagno dalle rive melmose, alimentato da un ruscelletto talmente esiguo da non aver bisogno di una via d’uscita: bastava l’evaporazione a tenere sotto controllo il livello dell’acqua. Da tempo i monaci vi avevano introdotto delle carpe, che adattandosi e riproducendosi come anime dannate, costituivano adesso un gustoso alimento per la tavola dell’abate.
“Reggi un momento.”, disse frate Marcello, passandogli un secchio di legno e un retino da pescatori.
Quindi, si chinò, afferrò l’orlo del saio e se lo rimboccò fino a mezza coscia, fissandolo al cordiglio che gli cingeva la vita. Fra’ Martino ebbe un tuffo al cuore alla vista delle gambe tornite e pelosette del giovane confratello e si sentì prendere da una vampata di calore, di cui l’altro per fortuna non si accorse. Era la prima volta, dopo tanti mesi, che gli riusciva di scorgere una briciola di nudità maschile e la cosa lo sconvolse. Intanto, frate Marcello si era tolto pure i sandali e cautamente si era avvicinato all’acqua melmosa.
“Ah! – gridolinò, appena fu con i piedi dentro – è fredda!”, e si volse all’amico con un’espressione tra una smorfia e un sorriso divertito.
Passato il primo momento, avanzò qualche passo, poi si voltò a frate Martino:
“Passami il retino.”
Al che, dopo un attimo di incertezza, anche fra Martino, si rimboccò il saio in vita e si tolse i sandali, prima di avvicinarsi cautamente alla sponda dello stagno. Si allungò per passargli il retino e si trasse indietro, mentre l’altro avanzava ancora di qualche passo, guardandosi attorno alla ricerca dei pesci.
Poi, con un guizzo tuffò il retino nell’acqua e lo sollevò esultante con una grossa carpa che vi si dibatteva dentro.
“L’ho presa! Passami il secchio.”, si volse a dire all’amico, ma così facendo perse l’equilibrio e capitombolò riverso nell’acqua.
“Frate Marcello!”, urlò fra’ Martino e si precipitò a soccorrerlo, ma fece male i calcoli, perché scivolò nella melma e cadde pure lui col culo nell’acqua.
A quella vista, e di vista ce n’era davvero parecchia, perché nello scivolare il saio era risalito a scoprirli buona parte del parco divertimenti, frate Marcello scoppiò a ridere fragorosamente, mentre cercava a fatica di rialzarsi. Tiratosi su, col saio bagnato che gli si appiccicava al corpo, si affrettò ad aiutare l’amico, gli porse la mano e lo aiutò rimettersi in piedi e poi a tornare sulla riva asciutta.
“Scusami, frate Martino, - disse a fatica, tenendosi la pancia dalle risate – ma dovresti vedere come sei ridotto…”
“Dovresti vederti tu…”, mugugnò lui, lasciandosi però subito coinvolgere dall’ilarità dell’altro.
“E poi, ti si è visto tutto…”
Martino avvampò e si affrettò a tirarsi giù il saio.
“La carpa è scappata…”, disse.
Fra Marcello fece spallucce:
“Adesso ne prendiamo un’altra.”, disse allegramente e rientrò in acqua.
Stavolta tutto procedette regolarmente e una mezzoretta dopo i due fraticelli rientravano con diversi bei pescioni ancora guizzanti nel secchio, pronti per essere cucinati e serviti alla tavola dell’abate.

Più tardi, mentre i monaci erano nelle loro celle per il riposo pomeridiano, frate Martino, il cui stomaco aveva già smaltito il magro pasto, si trovava nell’orto intento a portare avanti il lavoro che gli era stato affidato da frate Salterio. Si sudava non poco sotto il sole ancora alto del primo pomeriggio. Aveva appena terminato la striscia di terreno a ridosso dell’erba ruta e si era fermato un momento a riprendere fiato. Sentiva il sudore colargli alle ascelle e lungo la schiena, inzuppandogli la camicia sotto il saio pesante. Era assorto nei suoi pensieri, quando:
“Ps! Ehi, frate Martino..”, si sentì chiamare a bassa voce.
Sobbalzò e si guardò attorno: in uno squarcio dell’alta siepe di confine faceva capolino il volto sorridente di frate Marcello.
“Vieni”, gli disse ancora.
Frate Martino abbandonò la zappa a terra e aggirò la siepe per raggiungere il confratello, che lo aspettava con una scodellina in mano, coperta da una foglia di cavolo.
“Te ne ho portato un po’…”, disse, togliendo la foglia di cavolo e mostrando il contenuto della scodella.
C’erano alcuni bocconi delle orate pescate la mattina. Il profumo delle erbe aromatiche con cui erano state cucinate gli solleticò il naso e gli risvegliò lo stomaco.
“E’ poco. – volle scusarsi frate Marcello – ma solo questo sono riuscito a portargli via… a momenti quelli si mangiavano pure la padella!”
“E’ colpa tua, - mugugnò frate Martino, masticando un bocconcino di quella delizia – gliel’hai cucinata troppo bene. La prossima volta, mettici un po’ di fiele, così la lasceranno lì!”
“Ma allora non la mangeresti neanche tu.”, osservò frate Marcello prendendolo sul serio.
“Ah, non temere, con la fame che ho! Prendine anche tu.”, fece porgendogli la scodella, in cui era rimasto bene poco.
“No, è per te. Io mi sono già preso la mia parte!”
Frate Martino finì di masticare e inghiottì l’ultimo pezzo, poi raccolse il condimento con le dita e se le leccò avidamente.
“Che bontà…”, sospirò, rendendogli la scodella.
“Sei tutto sudato. – osservò frate Marcello – Vieni, andiamo a rinfrescarci un po’ allo stagno.”
“Ma frate Salterio…”
“Frate Salterio può andarsene al diavolo! - sbottò l’altro, facendosi il segno della croce – Lui, intanto, se ne sta al fresco a riposarsi. Andiamo a mettere i piedi nell’acqua. Dopo ti do una mano io, così finiamo prima che si svegli.”
Frate Martino non seppe resistere e, presolo per mano, lo trascinò quasi di corsa verso il laghetto. Non c’era nessuno in giro, neanche i servi del monastero, rintanati nelle loro camerate, e in un attimo furono sul posto.
Pur soffocato nell’afa pesante del pomeriggio estivo, lo stagno si presentò ai loro occhi con un’immagine di riposante frescura. I due si tolsero i calzari e si avvicinarono alla sponda, adesso più sicura, essendosi il fango asciugato. Si tirarono su il saio e si sedettero, con i piedi immersi nell’acqua fino ai polpacci.
“Ah, che bello!...”, sospirò frate Marcello, puntellandosi sulle braccia all’indietro.
Frate Martino non rispose, perso a guardare le carpe che volteggiavano nell’acqua melmosa, avvicinandosi a volte fino ai loro piedi, quasi fossero consapevoli di non correre alcun pericolo.
“Che ridere, stamattina, quando sei scivolato…”, disse ad un tratto frate Marcello.
“Sì, è stato divertente…”
“Ti si è visto tutto…”.
Frate Martino si girò a guardarlo.
“Ti è piaciuto?”, gli chiese, sentendosi serpeggiare un brivido di libidine nei posti proibiti.
Frate Marcello non rispose.
“Tu… - fece ad un tratto frate Martino – tu… ti tocchi mai?”
“Come?”
“Ti tocchi mai… qui sotto?”, ripeté frate Martino, infilandosi la mano sotto il saio.
“Cosa dici? – avvampò l’altro – lo sai che è proibito.”
“Lo so… - disse frate Martino, continuando a rovistarsi sotto il saio, pur avendo trovato da un pezzo quello che andava cercando – ma… ma non ti viene mai duro?”
Frate Marcello lo fissò con aria imbarazzata.
“Perché, a te?”, prese tempo.
“A me sì…”, disse frate Martino e si scoprì ulteriormente, rivelando l’uccello gloriosamente eretto, che stringeva nella mano.
L’altro si fece ancora più rosso.
“Copriti… - disse con voce tremante – Lo sai che è peccato…”
“Lo so che è peccato… ma è così bello…”, esclamò con aria beata frate Martino, facendoglisi più accosto, mentre accennava sull’asta un leggero saliscendi.
“Smettila… - quasi gridò frate Marcello – smettila, per favore…
Ma frate Martino non se ne diede per inteso. Anzi, allungò la mano sotto il saio di frate Marcello e dopo avergli palpato i coglioni, sfiorò con le dita un consistente bastoncello in via di lievitazione.
“Smettila, per favore, - insistette frate Marcello – è peccato… è peccato mortale…”, ma senza scostarsi, né accennare la minima resistenza.
“Ci confesseremo a frate Gaudenzio e diremo mille Paternostri.”, disse frate Martino, impugnandogli la verga ormai turgida e vibrante.
A quel punto, sopraffatto dalla violenza che stava subendo, o forse dalla piacevolezza che stava provando, frate Marcello si lasciò andare disteso sul fango secco, avendo cura nella concitazione del momento di afferrarsi l’orlo del saio e tirarlo su fino alla cintura, esponendo così l’intero armamentario.
Per frate Martino fu il segnale di via libera e, dopo averlo segato per un po’, si chinò e prestò al poderoso membro le stesse cure che a suo tempo il baroncino Wolfango aveva prestato a quello dell’aitante maestro di stalla. Lo teneva saldamente in pugno e muoveva la mano su e giù, ora più lenta, ora più veloce, prendendo spunto dai gemiti e dai sospiri che sfuggivano dalle labbra dischiuse di frate Marcello. E più prendeva coscienza del piacere che l’altro stava provando, più il suo cuore si riempiva di letizia… mentre il suo cazzo si gonfiava di ulteriore eccitazione.
Frate Marcello era disteso, gli occhi chiusi, le braccia abbandonate lungo i fianchi, il basso ventre oscenamente esposto; le gambe, vibravano, in sintonia col piacere che gli attraversava ogni fibra del corpo. Ad un tratto, frate Marcello le divaricò leggermente e subito frate Martino colse l’occasione di spingergli la mano sotto le palle e vellicargli con la punta del dito il buco del culo untuoso di sudore.
A quel tocco così intimo, frate Marcello, con uno scatto, divaricò ancora di più le gambe, sollevando il bacino, mentre del tutto inaspettatamente cercò a tentoni il cazzo di frate Martino e, trovatolo, lo strinse, cominciando a segarlo con mosse convulse.
Frate Martino spinse il dito ancora più a fondo, incrementando nel contempo il saliscendi della mano: la risposta non tardò ad arrivare: frate Marcello si inarcò e con un singulto strozzato si abbandonò all’orgasmo, forse il primo della sua vita. Dal suo cazzo, teso al massimo, schizzò fuori un getto corposo di liquido denso e biancastro, che gli si spiaccicò sul saio all’altezza del petto, assorbendosi in fretta nel tessuto poroso e lasciando solo una larga macchia di bagnato. Altri getti scaturirono, ma sempre più fievoli, finché si ridusse ad una colata di sperma viscoso che andò a inzuppargli il folto ciuffo pubico.
Respirando con voluttà quell’aroma pungente che da tempo non sentiva, frate Martino si afferrò con la mano imbrattata di sperma l’uccello che l’altro aveva mollato nello sconvolgimento dell’orgasmo e prese a masturbarsi, aggiungendo ben presto il suo abbondante contributo alla pozza che già allagava l’addome e l’inguine dell’amico.
Poi gli si distese al fianco, ansimante e felice.
Lo stesso non era per il povero frate Marcello, che dopo un po’ si ricoprì bruscamente, con la mente sconvolta, intimamente turbata. Aveva scoperto qualcosa che mai si sarebbe aspettato, qualcosa che rappresentava il male assoluto, che rischiava di trascinarlo all’inferno… ma… era stato anche così bello… Forse è vero che il demonio sa dare una veste smagliante alle sue tentazioni.
“Chi sei? – bisbigliò, volgendosi a frate Martino, ancora con le vergogne esposte al sole – Sei il demonio venuto a tentarmi?”
Frate Martino sorrise.
“Non lo so chi sono, - rispose – non lo so più; ma non sono il demonio, sta tranquillo, e se non tu vuoi, tutto questo non succederà più.”

(continua)
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