Gay & Bisex
Frate Martino - 4
di adad
30.03.2021 |
7.407 |
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"”, fece frate Martino: importante era partire..."
Non appena l’ultima pietra fu murata, non appena anche l’ultimo spiraglio fu chiuso da una cucchiaiata di calcina, il povero frate Martino si ritrovò immerso nel buio più assoluto, un buio che era solo il preliminare di quello della morte. Un sudore freddo gli coprì la fronte, gli tremarono le gambe e si accasciò a terra gemendo: stavolta non aveva via di scampo, stavolta era finita per davvero. I nodi erano venuti al pettine, i suoi peccati sarebbero presto giunti al vaglio del giudizio divino. Cosa poteva fare frate Martino, se non piangere? E infatti le lacrime cominciarono a sgorgagli da sole, ma era un pianto di tristezza, non di disperazione, perché non c’era posto per la disperazione, né avrebbe avuto senso: era un pianto di tristezza, di rammarico per il mondo che doveva lasciare, per le gioie che non lo avrebbero più allietato, per il sole che non lo avrebbe più… Tante cose aveva da rimpiangere frate Martino e tante cose rimpianse, a tanti chiese mentalmente perdono, di cui aveva insidiato la virtù.
Quanto tempo era passato? Era ancora giorno o era già notte? Cosa faceva il mondo fuori da quella tomba? Poi frate Martino pregò, ma non per la sua anima, che sapeva perduta: pregò che gli venisse concesso un passaggio veloce e senza troppe sofferenze.
Fu in quel momento che sentì come un grattìo da qualche parte. Si guardò attorno… che ci fossero i topi prigionieri con lui? Poveri animali, che non avevano fatto in tempo a scappare e adesso sarebbero morti anche loro. Ma per lo meno erano più fortunati, avrebbero potuto nutrirsi di lui e sopravvivere qualche giorno in più. Il grattìo si ripeté, più forte… era un raschiare… e anche un martellare contro il muro!
L’istinto vitale riesplose in lui con tutta la sua violenza. Muovendosi a tentoni, a passettini strascicati, si avvicinò alla fonte del rumore: proveniva da dietro la porta murata. I tonfi si fecero più forti: qualcuno stava cercando di aprire una breccia! Allora cominciò pure lui a grattare sulle pietre. Per fortuna la calcina non si era ancora asciugata… qualche pietra cominciava già a muoversi…
Fu lunga e penosa l’attesa, ma alla fine da un foro non più grande di un pugno penetrò il fievole bagliore di una torcia. Lacrime di sollievo gli punsero gli occhi, mentre lui da dentro e l’altro da fuori intensificavano i loro sforzi.
Il foro si ingrandì… apparve un volto… il volto di frate Marcello rigato di lacrime!
Da quel momento fu tutto più facile e in capo ad un’ora, la breccia era grande abbastanza da far passare un uomo. E frate Martino sgusciò fuori.
Avrebbe voluto abbracciarlo forte, esprimergli tutta la gioia di vederlo, ancor più grande di quella di essere fuori da quell’incubo, ma non osò: gli rimase immobile davanti a testa bassa, come un penitente.
“Ho saputo da frate Gesualdo quello che ti era successo… E’ colpa mia… non potevo permetterlo…”, disse frate Marcello alla fine.
“Colpa tua?”
“So perché ti hanno preso…”
“Sa… sapevi?”
Frate Marcello annuì e, d’un tratto un profondo senso di vergogna invase frate Martino: quel gesto suggeritogli dalla passione gli apparve come qualcosa di sporco, ripugnante. Avrebbe voluto che non fosse mai successo.
“Perdonami, - mormorò – avevo perso la testa.”
“Devi andar via. – disse frate Marcello, troncando quelle recriminazioni – Devi fuggire subito, guai se ti riprendono…”
“Vieni con me!”, fu la preghiera a cui frate Martino si aggrappò, nel tentativo di salvare un ultimo brandello di se stesso.
Ma frate Marcello scosse la testa:
“No… - rispose – non potrei mai darti niente. Posso capire i tuoi desideri, ma non ,sono i miei…”
Frate Martino lo sapeva, ma quelle parole lo trafissero lo stesso.
“In quella sacca, ti ho messo un po’ di roba… quel poco che ho potuto prendere, senza che frate Gesualdo se ne accorga. Ti basterà per qualche giorno. - disse frate Marcello, indicandogli un fagotto nell’ombra – Passa per la cappella di Santa Caterina, c’è un passaggio dietro l’altare: porta agli orti e poi verso il bosco della Portella, dove è più facile scavalcare il muro.”
“E tu?”
“Io sistemo qui, così nessuno si accorge di niente… Va, adesso, fra poco i monaci si alzano per le Laudi… Va, vai più lontano che puoi… e che Dio t’accompagni, fratello mio.”
I due si abbracciarono.
“Grazie.”, disse frate Martino.
“Che Dio t’accompagni.”, ripeté frate Marcello.
Frate Martino prese la sacca che l’altro gli aveva preparato e si avviò nell’oscurità. La fioca luce delle candele gli mostrò la via che gli era stata indicata e in breve il giovane camminava a passo spedito attraverso gli orti, mentre alle sue spalle risuonavano i primi rintocchi delle Laudi.
Qualche ora dopo, mentre i primi raggi del sole cominciavano a tingere l’orizzonte, frate Martino si faceva strada nell’intrigo di rovi e cespugli che formavano il sottobosco della Portella. Anche se ormai tutti lo davano per morto, riteneva infatti più prudente tenersi lontano dai sentieri dei boscaioli e dei cacciatori.
Erano tre giorni che arrancava in quella interminabile foresta in compagnia solo dei suoi pensieri. Ogni tanto mangiava un pezzo di pane o un boccone di carne secca, che l’amico gli aveva messo nella sacca; ogni tanto si sedeva ai piedi di un albero, cercando di recuperare le forze; non aveva neanche paura dei lupi, che ogni tanto sentiva ululare in lontananza, ma che gli stavano alla larga, quasi lo schifassero pure loro.
La consapevolezza che per colpa della sua lussuria aveva rischiato di provocare la rovina di frate Marcello non gli dava pace.
Ad un tratto, avvertì un tenue odore di fumo, indubbiamente segno di una presenza umana. Sul momento ebbe un moto di sollievo, pensò di raggiungere queste persone e chiedergli almeno come uscire da quella benedetta foresta. Ma subito dopo prevalse la prudenza, potevano essere briganti… Decise allora di scoprire chi fossero, prima di palesarsi. Muovendosi con la massima circospezione, seguì la traccia del fumo e, poco dopo, di alcune voci in lontananza, e si ritrovò così al limitare di una radura in cui fumavano diverse carbonaie; poco lontano un gruppetto di baracche cadenti.
Un accampamento di carbonai! Che fare? Frate Martino era indeciso… L’idea di una zuppa calda lo seduceva, ma sapeva anche che quella non era gente del tutto a posto con la testa. Avrebbero portato rispetto al suo saio? Era lì che indugiava, quando all’improvviso sentì un grido e subito dopo un ragazzotto con le braghe strappate e penzolanti uscì di corsa da una baracca, inseguito da un ceffo, che brandiva un uccello mostruoso, turgido e sbatacchiante nella corsa. Dopo pochi passi, afferrò il ragazzotto per una spalla e lo costrinse a terra; gli si inginocchiò in mezzo alle gambe, dopo avergliele divaricate, e gli strappò del tutto le braghe, denudandogli il fondoschiena. Quindi, gli passò un braccio sotto i fianchi, gli sollevò il bacino e gli dentro spinse il cazzo tutto d’un colpo.
L’altro urlò e si dibatté, sbattendo i pugni a terra, ma non doveva essere la prima volta che subiva la penetrazione, vista la relativa facilità con cui quell’organo impressionante gli era scivolato nel culo.
Frate Martino rimase sconvolto davanti a quella scena di violenza: si sentì avvampare in volto e tremare in tutto il corpo; ma a sconvolgerlo maggiormente fu scoprirsi eccitato, il cazzo che gli formicolava, balzato dubito duro!
Niente era valso tutto quello che era successo? Niente erano valsi i suoi buoni propositi? Così fragile era il suo pentimento?
Si allontanò di scatto, cercando di fare meno rumore possibile, ma quello ad ogni modo non sentiva niente, assordato com’era dalla sua lussuria e dalle urla della sua vittima.
Frate Martino riprese il suo viaggio, traumatizzato non dall’evento a cui aveva assistito, ma dalla consapevolezza che non c’era modo di sfuggire ai suoi vizi immondi. Doveva cercare di rafforzare le sue virtù… Sarebbe andato a prostrarsi sulla tomba del Salvatore… Sarebbe andato a Gerusalemme… Sì, sarebbe andato a Gerusalemme!
Vagò ancora diversi giorni nella foresta, finché la sua fortuna lo condusse ad un villaggio di pescatori. Il saio che indossava gli fu molto utile, gli aprì le porte e gli fornì qualcosa da mettere finalmente sotto i denti. Non solo, ma chiedendo qua e là, venne a sapere che a una ventina di leghe da lì, seguendo il sole, c’era un porto da cui partivano navi di mercanti diretti a Levante: lì forse avrebbe trovato da imbarcarsi.
Giunto nella cittadina, la fortuna fu ancora una volta dalla parte del giovane frate, che infatti trovò attraccata al porticciolo una cocca genovese, che aveva fatto scalo per rifornirsi di viveri e acqua. Trovato il comandante, venne a sapere che erano diretti a Costantinopoli.
“Ma non prendiamo passeggeri a bordo, - gli disse l’uomo – specialmente se non possono pagare… e tu non mi sembra proprio...”
“Posso pagare lavorando…”, lanciò frate Martino.
“Un monaco che lavora! Ahahahahah… - rise sguaiatamente l’uomo – E cosa fai,
ci reciti le preghiere del mattino?”
“Posso lavorare, - insistette frate Martino – conosco le malattie… posso curare i malati…”
L’uomo lo guardò con occhio interessato.
“Sei un medico?”
“Ho lavorato nell’infermeria del monastero… conosco le erbe.”
Non era del tutto vero, ma non era il caso di sottilizzare. Neanche l’altro parve aver voglia di fare il pignolo: in fondo qualche conoscenza medica a bordo faceva sempre comodo.
“In ogni caso, posso portarti fino a Rodi, poi dovrai provvedere da te.”
“Va bene.”, fece frate Martino: importante era partire.
“Togliti quell’affare, - continuò il comandante, alludendo al saio – e fatti dare dal nostromo qualcosa da metterti.”
I primi giorni furono un po’ agitati: era la prima volta che frate Martino metteva piede su una nave e ci mise qualche tempo ad imparare come rimanere in equilibrio su quel pavimento ondeggiante; inoltre, gli ordini relativi al governo della nave gli erano del tutto sconosciuti. Ma nel giro di una settimana si era impratichito abbastanza da non far rimpiangere al comandante, messer Maffio, di averlo preso a bordo.
Ma il vero problema fu un altro: che trovandosi davanti tutto il giorno e tutti i giorni quei marinai seminudi, giovanottoni tostati dal mare e dal sole, le certezze di frate Martino cominciarono a vacillare… a indebolirsi. Del resto, come si fa a resistere, quando si hanno continuamente davanti agli occhi cosce abbronzate, toraci nerboruti, natiche occhieggianti dagli strappi delle braghe consunte?
I primi giorni, il poveretto cercò di ignorarli, rifugiandosi nei buoni propositi che gli derivavano dal ricordo di frate Marcello, ma ben presto il volto dell’antico confratello prese ad affievolirsi nella sua memoria, sostituito dal culo palpitante di questo o di quel marinaio. Dopo un paio di settimane, il volto di frate Marcello era del tutto svanito e frate Martino cominciò a meditare di proseguire il viaggio con messer Maffio fino a Costantinopoli, delle cui meraviglie aveva tanto sentito parlare, rimandando al ritorno il pellegrinaggio a Gerusalemme.
C’era un marinaio in particolare sul quale frate Martino aveva posato gli occhi: un
giovane amalfitano di nome Antoniolo: era pressappoco della sua età, ormai sui vent’anni, biondo, comportamento un po’ smargiasso, che all’inizio lo aveva trattato con strafottenza, non perdendo occasione per sfotterlo ed umiliarlo, ma in seguito il suo atteggiamento si era addolcito ed era diventato quasi amichevole. Non era bello, nonostante il suo fisico asciutto e temprato dalla vita marinaresca, ma aveva quel qualcosa che attirava l’occhio e non lasciava indifferente il desiderio. E frate Martino non poteva negare le voglie che gli accendeva dentro, le voglie di avere fra le mani il suo corpo nudo, con tutto quello che ne consegue.
Naturalmente, niente di questo interesse traspariva dalle sue parole o dalle sue azioni. Lo stesso non possiamo dire dei suoi occhi, che lo cercavano e lo seguivano costantemente.
Una notte, mentre tutti dormivano, compreso i marinai di vedetta, che sonnecchiavano nelle loro postazioni, frate Martino era scivolato in coperta e si era affacciato al parapetto dalla parte di poppa, perdendosi a guardare la spuma fosforescente che la nave lasciava dietro di sé nel suo lento movimento.
Lo scricchiolio del legno, il frusciare della vela al vento leggero, tutto contribuiva a creare un’atmosfera straniante, che lasciava libera la sua mente di vagare senza pensieri. Ad un tratto si riscosse, sentendo una presenza al suo fianco. Non si mosse, in fondo non gli interessava chi fosse.
“Ho visto che mi guardi spesso… - mormorò il nuovo venuto a fior di labbra – se mi vuoi, mi devi dare dieci soldi.”
Frate Martino si sentì scombussolare dall’eccitazione della proposta.
“Ti voglio, - rispose, sentendosi nel contempo sommergere dalla delusione – ma non ho dieci soldi.”
Antoniolo tacque e l’altro si aspettò che andasse via. Invece:
“Senti” fece il marinaio e gli prese la mano, poggiandosela sul culo, coperto dal consunto tessuto delle braghe.
Frate Martino palpeggiò golosamente quelle chiappe piene e sode, poi:
“Senti”, fece e gli prese la mano, portandosela all’inguine, dove troneggiava il suo cazzo duro.
Antoniolo lo palpeggiò con non minore golosità di quanto veniva palpeggiato. Andarono avanti a pastrugnarsi sempre più infervorati.
“Prometti che me li darai?...”, disse infine Antoniolo, che spasimava dalla voglia di farselo mettere.
“Te lo prometto… quando li avrò.”, disse frate Martino, che ormai spasimava non meno di lui.
Si rincantucciarono in un angolo ancora più buio e mentre Antoniolo si abbassava le braghe sotto le natiche, fra Martino si cavò fuori la bestia scalpitante e dopo avergliela fatta strusciare un paio di volte nello spacco, la diresse a colpo sicuro nell’orifizio, spingendola subito dentro. Antoniolo era chiaramente aduso a quella pratica e la voglia gli rendeva il buco ancora più lasco: chissà quante altre volte si era venduto ad altri marinai infoiati.
Frate Martino gli spinse tutto dentro il cazzo formicolante, meravigliandosi lui stesso della facilità con cui la penetrazione stesse procedendo.
Giunto in fondo alla corsa, aspettò che Antoniolo si godesse il senso di pienezza nell’ano, poi lentamente cominciò a pompare, entrambi concentrati sia nel piacere che stavano provando, sia nello sforzo di non lasciarsi sfuggire gemiti o lamenti. E infatti l’atto si svolse nel più completo silenzio, salvo il sordo bramito di frate Martino, quando, al momento dell’orgasmo, svuotò la sua lussuria nell’intimità dell’altro.
Dopo di che si separarono.
“Ricordati…”, gli sussurrò Antoniolo, andando via, dopo essersi tirato su le braghe.
“Sì.”, promise frate Martino, senza chiedersi quando mai avrebbe potuto disporre di una simile somma.
Il tempo si manteneva bello e la navigazione proseguiva senza intoppi e avevano da poco superato l’isola di Citera e iniziato l’attraversamento dell’Egeo in direzione di Rodi, il tratto più pericoloso del viaggio, non solo perché dovevano navigare così a lungo lontano dalle coste, ma anche perché era battuto da pirati di ogni risma.
Tutto, comunque, sembrava procedere per il meglio, quando una mattina si vide una vela spuntare all’orizzonte, e dirigersi rapidamente alla loro volta.
Ser Maffio manifestò immediatamente i suoi timori e spedì un marinaio sulla coffa per tenere d’occhio la situazione, e l’allarme:
“Pirati!... Pirati saraceni!”, non tardò ad arrivare.
Il comandante ordinò di dare tutte le vele al vento; ma l’altra nave, più agile della pesante cocca mercantile acquistava rapidamente terreno. Ben presto fu a portata di arrembaggio.
“Tutti alle armi!”, urlò messer Maffio.
Gli uomini corsero a prendere chi la spada, chi l’ascia, chi un semplice randello, qualunque cosa si trovassero sotto mano: sarebbe stata una lotta per la vita, tanto più quando si udì l’equipaggio saraceno scandire: “Nadir! Nadir! Nadir!”
Quel grido gelò il sangue nelle vene degli sventurati genovesi: Al-Nadir era uno dei pirati più spietati e feroci che corressero quel mare.
L’arrembaggio non ha storia: la marea saracena dilagò a bordo della cocca e l’equipaggio fu sterminato in men che non si dica.
Frate Martino, all’inizio del combattimento aveva cercato di attingere tutto il suo coraggio e aveva afferrato un remo spezzato, per cercare almeno di difendersi; ma il primo saraceno che si trovò di fronte lo terrorizzò a tal punto che, gettato il bastone, corse a nascondersi dietro alcuni barili addossati al cassero di poppa: da lì assistette impotente alla strage, atterrito dalle urla di agonia dei colpiti e di esultanza dei vincitori.
Finita la mattanza, i saraceni cominciarono a sciamare per la nave alla ricerca del bottino e fu allora che un pirata lo scoprì, rannicchiato nel suo nascondiglio.
L’uomo gridò qualcosa nella sua lingua misteriosa e sollevò la sciabola ancora sgocciolante di sangue.
“No! – gridò frate Martino – Sono un frate!”
L’altro ghignò e alzò l’arma ancora di più, ma una mano lo afferrò saldamente al polso e bloccò il fendente, mentre un giovane moro gli dava un ordine secco e lo tirava indietro.
“Sei davvero un frate? – gli chiese quest’ultimo – Dov’è il tuo crocefisso?”
Frate Martino cercò di mettere a fuoco la vista annebbiata dalla paura e si trovò di fronte un giovane sui trenta anni, di carnagione olivastra, incredibilmente bello. Il frate si sentì trapassare da quegli occhi di giaietto, che lo fissavano da sotto le sopracciglia aggrottate.
“Chi sei, che parli la mia lingua?”, balbettò.
“Sono Al-Nadir, signore di questi mari. – rispose quello – e tu sei davvero un frate? Parla o ti uccido con le mie mani! Dov’è il tuo crocefisso?”
Con mano tremante, frate Martino frugò la mano nello scollo della tunichetta, estraendo il crocefisso di legno, legato con uno spago. Glielo mostrò e quello glielo strappò con un gesto rapido, stringendolo in mano; poi diede alcuni ordini e due guerrieri lo sollevarono di peso e lo trascinarono sulla loro nave, legandolo all’albero maestro.
(continua)
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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