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Gay & Bisex

Una storia di altri tempi - 2


di adad
07.03.2019    |    5.661    |    6 9.5
"Il sacrestano sentì le voci e, incuriosito, si avvicinò piano piano per vedere chi fossero, forse speranzoso di sorprendere una coppietta in azione..."
E l’amore sbocciò fra Antonello e don Gervasio, un amore completo e gratificante che li ricompensò entrambi delle angustie passate. Per non far nascere chiacchiere nella servitù di palazzo, il giovane non dormiva più nella camera padronale, ma col pretesto che era il suo segretario, gli era stato approntato un alloggio praticamente porta a porta, onde i due non avevano alcuna difficoltà a passare la notte insieme, se non il cruccio di doversi ritirare ognuno nella propria stanza prima che i servi si svegliassero.
Ma nonostante questo, entrambi stavano vivendo un momento di felicità e di pienezza di vita, che nessuno dei due aveva mai conosciuto finora.
Ma il diavolo, si sa, è nemico dell’umana felicità e proprio quando siamo convinti che nessuno potrà strapparcela, proprio allora ci spinge verso l’orlo dell’abisso e ci sprofonda.
Un giorno, era passato ormai qualche mese e l’estate era esplosa in tutta la sua rigogliosa esuberanza, dopo mangiato i due decisero di andare a godersi il fresco sulla riva di un fiume nelle vicinanze: cavalcarono fino ad un boschetto e lasciarono i cavalli a brucare all’ombra di faggi e quercioli, mentre loro raggiungevano un praticello lambito dalle acque, che scorrevano tranquille: lì stesero a terra una rozza coperta e si sdraiarono, mano nella mano.
Rimasero a lungo in silenzio, a godersi la pace che regnava fuori e dentro di loro.
“Don Gervasio… - mormorò ad un tratto Antonello – vi ho mai detto quanto vi amo?”
“Che io ricordi, mai”, ridacchiò l’uomo, ricordando le volte che se lo erano bisbigliato e detto nei loro momento d’amore.
“E allora ve lo dico adesso!”, e Antonello si tirò a sedere, chinandosi poi sull’amico con gli occhi scintillanti.
“Vi amo da morire…”, disse e lo baciò.
Sentendosi un groppo di emozione alla gola, don Gervasio lo avvolse in un abbraccio, ricambiando il suo bacio.
“Ma perché ti ostini a chiamarmi don Gervasio, a darmi del voi?”
“Potrei dirvi che vi stimo troppo per permettermi certe confidenze; - rispose Antonello - ma la verità è che preferisco evitare, in un momento di distrazione, di commettere qualche leggerezza in presenza di altri, rovinando tutto.”
“Hai ragione, amore mio, ma vorrei tanto che non ci fosse bisogno di tanta segretezza, vorrei tanto poterti vivere alla luce del sole.”
“Ehi, - esclamò dopo un po’ Antonello, levandosi a sedere – che ne dite di fare un bagno? Quell’acqua è così invitante… Dai, andiamo.”, e si tolse il gilè, sfilandosi la camicia dai pantaloni.
L’altro nicchiò, tentò di dissuaderlo, ma tutto fu inutile: Antonello si avvicinò alla sponda, con mossa rapida si sfilò anche i pantaloni e le mutande e corse a gettarsi in acqua con un grido di autentica felicità. Dopo aver sguazzato un poco, si alzò, con l’acqua che gli arrivava alla vita e chiamò di nuovo l’amico.
“Venite, don Gervasio! È bellissimo…”
L’altro fece segno di no con la mano, ma Antonello non si arrese:
“Su, non fatevi pregare… Venite… Fatelo per me…”
E finalmente, dopo altre insistenze, don Gervasio si alzò e cominciò a spogliarsi; una volta nudo, corse anche lui al fiume, coprendosi l’inguine con le mani a coppa, e si gettò in acqua.
La frescura liquida era piacevolissima sulla loro pelle accaldata, tanto più che si infilava nelle pieghe più recondite del loro corpo, mulinando intorno allo scroto e scivolando nello spacco del culo. I due presero a giocare, schizzandosi l’acqua a piene mani e fingendo scene di lotta che erano più che altro pretesto di abbracci.
Erano stanchi e ansimanti, quando uscirono dal fiume come due primordiali creature silvane: perle d’acqua erano incastonate fra i capelli scompigliati, nella barba, nel ciuffo aggrovigliato del pube: perle d’acqua, che brillavano al sole come piccoli diamanti.
Poi don Gervasio fece per rivestirsi, ma Antonello gli tolse i panni di mano e lo fece nuovamente distendere sul prato. Era la prima volta che lo vedeva nudo alla luce del sole ed era stupito e ammirato per la bellezza del suo corpo. Sfiorò i capezzoli, che punteggiavano due pettorali dalle linee morbide, e sorrise al brivido che percorse don Gervasio. Poi si chinò e li stuzzicò con la lingua, mordicchiandoli leggermente.
Antonello non era mai stato con nessuno, prima di don Gervasio, nessuno gli aveva insegnato quelle cose, gli venivano da sé, spontanee, come un misterioso istinto della natura. Ma neanche il barone le conosceva: per lui il sesso era consistito fino ad allora nel manipolare l’uccello fino alla liberazione dell’orgasmo.
Ora stava scoprendo nuove sensazioni, che nulla avevano a che fare con il suo cazzo, eppure glielo facevano vibrare straordinariamente. Antonello intanto proseguiva la sua esplorazione: inebriato dall’aroma sensuale che quel corpo emanava, baciò l’ombelico profondo, poi si avvicinò all’inguine, immerse il volto nel soffice ciuffo castano inalandone l’afrore quasi animalesco e infine gli prese in mano l’uccello, ancora stranamente molle.
Sapeva l’effetto che faceva stringerlo in mano, ma ora era diverso: gli diede un senso di tenerezza a vederlo così molle, inerme, inoffensivo. Senza pensarci, ci poggiò sopra le labbra e lo baciò. E quando, rispondendo al richiamo, l’organo cominciò a prender vita e turgore, Antonello sorrise e lo prese in bocca.
“Cosa fai?”, volle protestare don Gervasio, ma la protesta gli morì sulle labbra per l’incredibile piacere che la bocca e la lingua di Antonello gli stavano facendo provare.
Mai avrebbe detto che si potesse desiderare di prendere in bocca l’organo con cui… e mai avrebbe sospettato che fosse così piacevole. Antonello continuava a succhiare e leccare, e lui sperava che non finisse mai.
Ma finì e venne nella bocca di Antonello con un orgasmo mai provato prima.
Quando finirono gli spasimi e il giovane tornò a distenderglisi accanto, Don Gervasio lo abbracciò.
“Dove lo hai imparato?”, gli chiese estasiato.
“Da nessuna parte, - rispose Antonello, facendo spallucce – mi è venuto naturale. Ti è piaciuto?”
“Direi di sì… - ridacchiò il barone – E’ incredibile… A te piuttosto, non ti ha fatto schifo?”
“No, anzi è bellissimo tenerlo in bocca… è morbido… e poi ha un gusto così strano…”
“Sei fantastico, amore mio… io non so se ce la farei a fartelo…”
“Ma io non te l’ho chiesto…”
“Però, ti piacerebbe…”
Mentre i due andavano avanti con le loro coccole audaci e le tenere carezze, il demonio andava tessendo la sua tela: quel giorno, infatti, aveva ispirato al sacrestano del paese il desiderio di farsi per cena una frittata con i funghi, così che quello aveva preso il cestino della perpetua ed era andato nel bosco.
Per portare a compimento la sua trama, il demonio aveva disseminato i funghi lungo un sentiero che, raccogli, raccogli, avevano portato il sacrestano nelle vicinanze del praticello, sulla riva del fiume, dove i due erano intenti in amene piacevolezze.
Il sacrestano sentì le voci e, incuriosito, si avvicinò piano piano per vedere chi fossero, forse speranzoso di sorprendere una coppietta in azione.
Ma quando riuscì a trovare il giusto punto di osservazione e aguzzò la vista, scoprì che la coppietta era composta dal barone e dal suo segretario, nudi e scomposti, impegnati in atti decisamente riprovevoli.
Il sacrestano non era una volpe, ma certe cose le capiva; così, buttò via il cestino con i funghi, che ormai avevano assolto al loro compito e non servivano più, e corse difilato in paese, dove raccontò tutto alla perpetua.
“Ma cosa vai cianciando, stupido ubriacone!”, lo investì quella, intimandogli di smetterla immediatamente di dire oscenità a proposito del barone.
Ma come era già successo al barbiere del buon re Mida, neanche lei seppe tenersi il rospo nello stomaco e, sbrigate le sue faccende in fretta e furia, corse a riferire il tutto alla comare, che poi ne parlò al marito, che lo raccontò all’amica, che lo confidò alla sorella ecc. ecc.
In capo a due giorni, tutto il paese mormorava che il barone era stato sorpreso sulla riva del fiume a fare chissà quali porcherie assieme al suo segretario… forse un incantesimo satanico, Dio ce ne scampi!
Le cose erano a questo punto, quando don Federico andò dal barone, suo amico, per metterlo in guardia, come abbiamo visto.

(continua)
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