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Gay & Bisex

Una storia di altri tempi - 1


di adad
06.03.2019    |    12.153    |    7 9.5
"Il guaio era che la povera santa, forse un poco svampita per l'età non si era resa conto che Antonello non poteva essere la persona giusta a colmare la..."
“Va bene, va bene, ho capito. In paese si mormora sul mio conto e lo posso capire, ma per il resto, caro don Federico, la cosa non vi riguarda e non vi deve riguardare, né voi, né nessun altro, tranne forse il Padreterno, ma con Lui me la vedo io.”
Don Gervasio disse queste parole con tono calmo, ma fermo e inappellabile.
“Il ragazzo è il mio segretario e questo vi deve bastare.”, aggiunse.
Don Federico si strinse nelle spalle:
“Don Gervasio mio, - fece – e chi vi dice niente: paggio o segretario, a me personalmente non fa né caldo, né freddo. Da amico, quale mi reputo di esservi, ho ritenuto opportuno riferirvi le voci che girano, in modo che poteste regolarvi. Per il resto sono affari vostri.”
“Perdonatemi, don Federico, - disse l’altro in tono conciliante – non dubito della sincerità della vostra amicizia. Mi sono lasciato prendere dalla stizza, perché non siete il primo e, temo, non sarete l’ultimo a ficcare il naso in questo affare…”
“Don Gerva’, io non ficco il naso da nessuna parte!”, lo interruppe piccato don Federico.
“Scusate, scusate… so bene che voi parlate in buona fede. Sono io che certe volte mi lascio trascinare… Venite, beviamo qualcosa. Vi va una bella limonata fresca?”
“E’ giusto quello che ci vuole.”, fece don Federico, sollevato per la ritrovata armonia col suo caro amico don Gervasio, barone di Monte Cappello.
Il barone suonò un campanello.
“Portaci due belle limonate fresche.”, disse al valletto che si era presentato alla chiamata.
Parlarono di altre faccende i due amici, mentre sorseggiavano con evidente piacere la bibita zuccheratissima: dei raccolti che sembravano promettere bene e di altre faccende più o meno importanti, come i mille pettegolezzi che arrivavano dalla Corte.
Finalmente, la visita terminò e, rimasto solo, don Gervasio poté finalmente abbandonarsi ad una monumentale sacramentazione, in cui furono pochi i santi a scamparla: le sante no, per cavalleresca galanteria il barone non le bestemmiava mai. E infatti loro erano tutte contente, e guai a chi glielo toccava, don Gervasio: era il loro beniamino, lo difendevano presso il Tribunale Supremo, quando i santi maschi andavano a protestare; e gli facevano favoretti e cortesie, come solo le sante sanno fare ai loro favoriti.
Era stata infatti santa Ermenegilda, rattristata per la solitudine del barone, dopo che era rimasto vedovo in così giovane età, a fargli incontrare il ventenne Antonello, bello come un dio.
Il guaio era che la povera santa, forse un poco svampita per l'età non si era resa conto che Antonello non poteva essere la persona giusta a colmare la vedovile solitudine del barone: lo aveva visto così avvenente e si era detta: “Questo è proprio quello che ci vuole per il nostro Gervasio.” E così un giorno li aveva fatti incontrare.
Il barone a quell’epoca aveva da poco superato i trentacinque anni: era un bell’uomo, robusto di persona, barba ben curata, capelli castano leggermente ondulati, naso deciso che conferiva forza e mascolinità al suo volto già virile.
Era vedovo ormai da cinque anni e nonostante numerose dame della Corte gli avessero fatto pervenire i segni della loro simpatia, lui aveva preferito rimanersene nella rustica semplicità del suo palazzo a Monte Cappello.
Quel giorno, don Gervasio tornava dalla sua passeggiata per i viottoli di campagna e cavalcava tranquillo, ripensando alle richieste che gli aveva fatto poco prima un suo fattore, quando ad una svolta della strada maestra aveva visto un giovane seduto su un ceppo, che si massaggiava con evidente dolore una caviglia.
Spinto dalla sua naturale generosità, il barone si avvicinò. Sentendo lo scalpiccio del cavallo, il giovane sollevò la testa e don Gervasio rimase immediatamente colpito dalla bellezza infusa in quel volto, sia pure straziato dal dolore.
Scese da cavallo e si avvicinò.
“Cosa vi è successo, bel giovane, sembrate molto sofferente.”, gli chiese.
“Ho preso una storta, signore, e credo di essermi slogata una caviglia.”
“Fatemi dare un’occhiata. Non abbiate paura: sono il barone di Monte Cappello, signore di questo posto.”
Si inginocchiò ed esaminò la caviglia.
“Credo proprio che abbiate ragione. Si è già gonfiata. Dovunque siate diretto, non potete continuare in queste condizioni. Venite, vi porto a casa mia, vedremo quello che c’è da fare.”
Lo aiutò a salire a cavallo, poi prese le redini e camminando si avviò verso casa. Ma mentre andavano, il barone sentiva dentro di sé una strana inquietudine, mista ad un’altrettanto strana sollecitudine verso quel giovane sconosciuto.
A casa, lo fece portare in nella sua camera e sdraiare su un sofà; poi mandò a chiamare la conciaossa del paese, che fece presto e bene il suo lavoro.
“Come vi chiamate?”, chiese al giovane don Gervasio quando tutto fu finito, sedendogli accanto.
“Permettetemi innanzitutto di ringraziarvi per la vostra cortesia e la vostra generosità.”, fece il giovane.
Don Gervasio fece un gesto con la mano, come a dire “sciocchezze”.
“Mi chiamo Antonello, - proseguì quello – e perdonate se non vi dico altro di me; ma vi assicuro che non ho commesso nessun delitto e non sono ricercato dalla legge.”
“Questo mi basta. Da dove venite?”
“Vengo da C***, un paese che forse non avete mai sentito neanche nominare, è molto lontano da qui. Il mio cavallo ieri si è azzoppato e ho dovuto abbandonarlo. Adesso vado a piedi, in cerca di fortuna.”
“Sapete leggere?”, chiese don Gervasio, colto da un’improvvisa ispirazione.
“Sì, signore; so leggere e scrivere, e conosco anche un po’ di latino.”
“Alla buon’ora! – esultò il barone, battendosi la mano sulla coscia – Siete fortunato: ho giusto bisogno di un segretario. Accettate?”
“Si direbbe che valeva la pena slogarmi una caviglia, se questa è la ricompensa.”, esclamò Antonello con un largo sorriso, che gli illuminò il volto, rendendolo ancora più affascinante agli occhi ormai conquistati del barone.

Quella sera, considerato che il giovane era ancora dolorante, il barone volle che non facesse spostamenti, ma che dormisse con lui nel letto padronale, grande abbastanza perché vi riposassero senza crearsi intralcio.
Cenarono qualcosa in camera, dove don Gervasio aveva fatto apparecchiare per riguardo all’ospite, dopo di che Antonello si mise subito a letto, mentre lui si ritirava in biblioteca a passare la serata con degli amici in visita.
Quando più tardi il barone entrò in camera da letto, Antonello sembrava immerso in un sonno profondo, così, senza fare rumore l’uomo si spogliò, si infilò la camicia da notte sul corpo nudo e, spento il lume, scivolò sotto le lenzuola. Antonello però era tutt’altro che immerso in un sonno profondo; anzi, sotto le palpebre abbassate, gli occhi erano svegli e lucidi di desiderio.
Il pensiero che un così bell’uomo dormisse a distanza di un braccio da lui lo faceva rimescolare tutto. Antonello ne era rimasto colpito fin dal primo sguardo che gli aveva lanciato, quando lo aveva visto spuntare a cavallo dalla svolta della strada; e ancor più ne era rimasto conquistato allorché si era fermato e lo aveva aiutato con tanta premura.
Chissà quanto tempo Antonello rimase lì a rimuginare pensieri tutt’altro che puri nei confronti del suo benefattore; finché, sembrandogli dal respiro che si fosse ormai addormentato profondamente, cominciò a strisciare, millimetro per millimetro, verso quel corpo di cui già avvertiva il calore.
Quando gli fu a ridosso, il tremito delle sue mani lo spaventò, temette che il letto stesso ne vibrasse e svegliasse il barone. Passò qualche tempo e il barone non si svegliò, allora lentamente avvicinò la mano, fino a poggiarne il dorso alla coscia del dormiente: il calore denso che traspirava dal tessuto soffice del camicione ravvivò la sua libidine, infondendogli coraggio: allora si mise dolorosamente sul fianco e gli poggiò lieve la mano sulla coscia, rimanendo in attesa. Nessuna reazione.
Preso coraggio, accennò una carezza leggera… Ancora nessuna reazione: il barone dormiva della grossa. Più nulla riuscendo ormai a frapporsi alla sua crescente libidine, Antonello ebbe la tentazione di tirargli su il camicione, ma gli parve troppo pericoloso; allora cominciò a spostare la mano tremante verso il suo inguine, trovandoci, quando giunse, il biscione già mezzo incannato.
Le impudiche carezze, infatti, avevano raggiunto don Gervasio nell’abisso del suo sonno: non lo avevano svegliato, ma avevano suscitato in lui sogni nebulosi e un piacere che non provava da tempi immemorabili.
Avvertendo una mano vogliosa su di lui, il biscione raggiunse presto il dovuto turgore e istintivamente Antonello cominciò a lisciarlo muovendo la mano su e giù. La risposta non tardò ad arrivare: perso nel vortice del suo sogno erotico, don Gervasio cominciò gemere piano, mentre il suo pistone vibrava senza più pudore e senza più pudore ormai Antonello lo aveva impugnato e lo menava con decisione.
Fu in quel momento che don Gervasio spalancò gli occhi, quasi ansimando, e si portò la mano all’inguine. Per fortuna, Antonello fu rapido a togliere la sua e, reprimendo a fatica il battito del suo cuore impazzito, a girarsi a pancia in giù, fingendosi immerso nel più assoluto torpore.
Ma don Gervasio non era uno sciocco, pur essendo un gentiluomo di campagna, e capì subito chi era stato l’artefice del suo piacere. Se quella consapevolezza lo turbò, fu solo per un istante, perché subito dopo si sentì traboccare il cuore di un inspiegabile trasporto e, sollevatosi sul fianco, allungò la mano a carezzare la coscia di Antonello, il cuore prese a battere come impazzito.
Dopo essersi soffermata un momento, la mano del barone risalì fino a raggiungere la procace rotondità delle natiche, dove si fermò, quasi incredula di aver osato così tanto. Ma ormai il processo era avviato: trascinato dalla sua crescente libidine, il barone infilò la mano sotto la camicia da notte di Antonello e prese a carezzare vogliosamente quelle brucianti carni nude.
Ormai il giovane non poteva più fingere di dormire, ma neanche poteva svegliarsi, perché questo avrebbe significato dover affrontare la realtà, dover reagire in qualche modo, dover accettare consapevolmente quelle carezze o rifiutarle; e lui non voleva rifiutarle, ma nemmeno sapeva cosa avrebbe significato accettarle: quanti di noi si sono trovati di fronte a questo dilemma, la loro prima volta? L’unica era fingere di dormire e lasciare che fosse l’altro a decidere.
Ma don Gervasio non si rassegnava a quel silenzio:
“Perché fingi di dormire, ragazzo? – gli bisbigliava con voce dolce e triste al contempo, avvicinando le labbra, fin quasi a baciargli l’orecchio – Perché ti sottrai alle mie carezze? Sei stato tu a svegliare la mia passione, lo so, sei stato tu ad accendere il fuoco che mi divora. E ora perché non rispondi? perché mi lasci delirare a vuoto? Le tue carni bruciano, sento il tuo desiderio, lo sento sotto le mani ed è il mio stesso desiderio… Ho bisogno di te, ragazzo, ho bisogno di te…”
Ma Antonello continuava a tacere, continuava a reprimere i battiti del suo cuore, continuava ad affettare un respiro tranquillo, un sonno immemore.
Alla fine, più per disperazione, don Gervasio si tirò su la camicia da notte, si impugnò l’arnese vibrante e si masturbò, versando infine il suo seme sulle agognate chiappe del giovane, ricoprendole nuovamente con il camicione e tornando a distenderglisi accanto, non con la speranza di riprendere sonno, ma per assaporare la voluttà di ripensarlo... i suoi occhi… le sua voce… il suo sorriso… anche i suoi gemiti di sofferenza, se non altro per rivivere la gratificazione di fare qualcosa per lui. Solo verso l’alba la stanchezza ebbe la meglio e don Gervasio si assopì.
Ma non certo migliore fu la nottate di Antonello, che non osava più muoversi dalla sua posizione e si sentiva straziare per non aver avuto il coraggio di interrompere la finzione, di svegliarsi e accettare quello che l’uomo gli stava offrendo. Aveva quasi pianto, quando si era sentito versare sulle natiche il frutto di quella passione… perché aveva taciuto? Perché non aveva avuto il coraggio di gettargli le braccia al collo?
Verso l’alba si girò sul fianco, rivolto verso il barone, fissandolo nella penombra della stanza: era così bello nell’abbandono del sonno. Perché si era comportato in un modo così assurdo con lui?
Ma ecco che anche gli occhi dell’uomo si aprirono e lo fissarono, mentre un sorriso dolcissimo gli illuminava il volto. Non disse niente don Gervasio, stese soltanto la mano a carezzargli la guancia, una carezza leggera, quasi avesse timore di spezzare la magia di quel momento, il loro primo momento; poi si protese in avanti, gli passò la mano dietro la nuca e lo baciò.
Era la prima volta per lui tornare a baciare qualcuno ed era la prima volta per Antonello che qualcuno lo baciasse.
Quando la lingua del barone scivolò nella sua bocca, ebbe un attimo di ripulsa, ma fu solo un attimo: subito dopo si lasciò andare e gli si offrì con tutta la passione e l’ardore dei suoi vent’anni.

(continua)
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