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Pei sentieri del piacer - 1


di adad
01.08.2021    |    5.386    |    4 10.0
"Quando poi, quasi ne avesse avvertito lo sguardo, il vicino si era girato, i loro occhi si erano incrociati e le labbra si erano incurvate..."
“Sempre libera degg’io folleggiare di gioia in gioia, vo’ che scorra il viver mio pei sentieri del piacer…”, gorgheggiava Guido, seguendo le acrobazie vocali della Callas sul CD della macchina, mentre guidava a velocità moderata lungo le strade della cittadina in cui, abitava il suo ragazzo.
Una relazione che andava avanti da qualche mese, da quando si erano conosciuti sulle gradinate dell’Arena, durante una recita dell’intramontabile Aida.
Guido era giunto da poco e cercava la posizione migliore per preservare il più a lungo possibile l’integrità delle chiappe sul cuscino gnoccoloso che aveva noleggiato lì in Arena, quando un giovane sui trenta, pressappoco suo coetaneo, gli si era seduto accanto, rivolgendogli un timido sorriso, quasi a volersi scusare dell’incomodo che gli avrebbe arrecato.
Sul momento, lo aveva ignorato, continuando ostentatamente a leggere le note del programma, quasi seccato da quella presenza sconosciuta a contatto di gomito; poi, un’occhiata in tralice alle cosce avvolte nei jeans leggeri, fin su all’interessante rigonfiamento alla loro convergenza, un’occhiata di sfuggita alle belle mani nervose che tenevano un dépliant sugli spettacoli dell’estate, un’occhiata infine più decisa al bel volto del vicino avevano decisamente addolcito la sua contrarietà.
Quando poi, quasi ne avesse avvertito lo sguardo, il vicino si era girato, i loro occhi si erano incrociati e le labbra si erano incurvate contemporaneamente ad un cordiale sorriso.
“Lo spettacolo promette bene.”, disse il vicino, accennando alle scene colossali, ai piloni istoriati, alle comparse vestite da antichi egiziani, che girovagavano per l’immenso palcoscenico a dare gli ultimi ritocchi.
Una banalità a cui Guido rispose con la prima che gli passò per la mente:
“Beh, l’Aida non delude mai.”
Si vergognò subito di quella cavolata, ma l’altro non gliene diede il tempo.
“Mi chiamo Armando.”, disse, voltandosi a metà e tendendogli la destra.
“Piacere, Guido.”
Guido sentì un leggero brivido al contatto di quella mano solida e asciutta, e inconsciamente prolungò la stretta forse un secondo in più del necessario.
Seguirono i canonici “di dove sei”, “cosa fai” e via di seguito secondo il normale repertorio, finché al terzo suono del gong, le luci attenuarono e, dopo l’applauso all’ingresso del Maestro, gli archi iniziarono lo struggente preludio.
Ma non era come le altre volte, già alle prime note Guido sentì che qualcosa gli impediva di concentrarsi, che lo portava altrove con la mente. Avvertiva la presenza al suo fianco, ne avvertiva il calore che si sprigionava dal corpo, ne avvertiva il ritmo del respiro…
La prima scena scivolò via pressoché ignorata… e quando Radames intonò il “Celeste Aida”, la sua gamba si spinse a sfiorare inavvertitamente quella di Armando… che non si ritrasse, e questo aumentò il suo batticuore.
Non se ne era accorto? era troppo concentrato nell’ascolto? o forse anche lui?…
Dopo qualche minuto, Guido ritrasse la gamba, ma il contatto non si interruppe, perché stavolta fu Armando a spingere inavvertitamente di lato la sua fino a sfiorarsi di nuovo.
Queste manovre, che noi riassumiamo in poche righe, in realtà durarono interi quarti d’ora, per cui passò tutto il primo atto prima che lo sfioramento casuale delle gambe si trasformasse in un contatto stabile e rassicurante.
Gli applausi scroscianti sembrarono svegliare Guido da un sogno. Si voltò verso Armando e Armando si voltò verso di lui.
“Bello, vero?”, disse con un sorriso, mentre prendeva ad applaudire pure lui.
Guido fece cenno di sì con la testa e si unì all’applauso, ma francamente non ricordava neanche una nota di quanto aveva sentito.
Durante l’intervallo, Armando si allontanò per scendere ai bagni e gli chiese se voleva sgranchirsi le gambe, ma lui non rifiutò:
“Ti aspetto qui.”, gli disse.
In realtà, temeva che, alzandosi, apparisse evidente l’erezione che lo divorava e che forse gli stava bagnando i pantaloni.
E così lo trovò Armando al ritorno: rannicchiato e con le cosce strette.
“Cos’hai?”, gli chiese.
“Un po’ freddo.”, mentì Guido e, infatti per sua fortuna si era alzato un venticello fresco, indizio di qualche temporale che si stava scaricando chissà dove.
“Non hai un maglioncino?”
“No”
“Aspetta.”, disse, allora, Armando e, aperto lo zainetto, ne tirò fuori un giacchino di jeans che depose premurosamente sulle spalle dell’amico.
“E tu?”, chiese Guido.
“Lo avevo portato solo per precauzione. – rispose Armando – Sono un tipo focoso.”, e scoppiò a ridere.
Stringendosi addosso il giacchino di Armando, a Guido sembrò come di essere avvolto da un abbraccio e si rilassò, anche perché l’erezione gli era passata per il momento. Il resto della rappresentazione andò decisamente meglio, come se passato l’imbarazzo e l’incertezza iniziale, i due, e Guido in particolare, potessero dedicare adesso la loro attenzione allo spettacolo a cui stavano assistendo.
Era tardissimo quando l’opera finì e gli spettatori cominciarono a defluire attraverso gli antichi vomitoria dell’Arena.
Nella ressa, due si persero di vista e passò qualche minuto, prima che Armando individuasse Guido, che continuava a guardarsi attorno spaesato. Lo raggiunse, ma all’improvviso si sentirono entrambi la testa vuota: la magia di qualche ora prima era svanita. C’erano ancora dei bar aperti in piazza Bra.
“Ti va una birra?”, propose Guido, quasi in preda alla disperazione.
Armando guardò l’orologio e fece spallucce.
“Perché no?”, sorrise.
Scelsero un tavolo, ordinarono e bevvero, commentando scioccamente lo spettacolo appena visto, senza che nessuno dei due avesse il coraggio di andare oltre, di dire una parola sulle emozioni vere che avevano vissuto, uno accanto all’altro su quelle dure gradinate.
“Dove hai la macchina?”, chiese infine Guido.
“Sono in treno.”, rispose Armando.
“In treno? Ma non ci sono corse a quest’ora!”
“Infatti, ma sono quasi le due ormai. Alle cinque c’è il primo treno. Si tratta solo di aspettare qualche ora..”
“Qualche ora? Ma non se ne parla, - saltò su Guido – ti do un passaggio io.”
“Non preoccuparti, non è la prima volta, ci sono abituato.”
“Assolutamente no, non ti lascio ad aspettare un treno in stazione. Con tutti i pericoli in circolazione. Dai, andiamo.”, e si alzò dal tavolo.
“Ma no, dai, Guido, - si schermì ancora Armando – sono quaranta chilometri per arrivare a casa mia e tu abiti dalla parte opposta…”
“Vuol dire che mi offrirai la colazione.”, tagliò corto Guido.
Armando cedette e lo seguì, pur sentendosi in colpa per il disagio che stava per creargli. Dovettero fare un bel pezzo di strada per raggiungere la macchina e finalmente partirono.
Dopo un po’, si lasciarono alle spalle la città e presero la statale.
“Senti, mi dispiace che…”, mormorò Armando.
“Sciocchezze. – rispose Guido – mi piace guidare, non mi costa niente, credimi. Ti accompagno volentieri”
“Ci conosciamo appena, ma sei davvero un amico.”, mormorò Armando.
“Già, e non potevo mica lasciare un amico ad aspettare da solo in stazione.”, disse Guido, cogliendo l’occasione per allungare la mano e battergli un colpetto sulla coscia.
La mano indugiò un momento, indecisa, poi si ritrasse per tornare a impugnare il volante. Erano ormai fuori Verona e la macchina sfrecciava sulla statale buia, quando, all’improvviso, Guido imboccò una stradina di campagna, bloccandosi dopo un centinaio di metri.
“Cosa c’è?”, chiese Armando.
Ma, senza rispondere, l’altro sganciò la cintura, si sporse verso di lui e afferratagli la testa con ambo le mani, si avventò a baciarlo sulle labbra.
“Ehi…”, fece Armando, divincolandosi dalla stretta.
“Scusami… – balbettò Guiso – Non ce la facevo più. Mi piaci davvero, cazzo!”
“Bastava dirmelo… - sorrise Armando – Abbiamo superato posti migliori.”, e fu lui stavolta a sporgersi verso Guido.
Ben presto, l’angusto spazio dei sedili anteriori fu un campo di battaglia, in cui i due giovani duellavano di baci e di carezze. Guido era riuscito ad estrarre il cazzo turgido di Armando: lo impugnò un momento, come a pregustarne la consistenza, poi nell’oscurità della notte ci si chinò sopra. Furono indubbiamente l’istinto e l’odore a guidare la sua lingua, che venne accolta con un gemito di voluttà, quando Armando se la sentì svirgolare attorno alla cappella.
Guido slinguò la bava amarognola che la copriva, poi spalancò la bocca e ingoiò buona parte dell’asta, ronfandoci attorno.
Armando si lasciò andare al piacere, carezzandogli dolcemente i capelli, mentre Guido iniziava a succhiare con vorace determinazione, nonostante l’incomodo della leva del cambio premuta sul fianco.
A nessuno dei due passò per la mente di spostarsi sul sedile posteriore, tanta era l’urgenza da cui entrambi erano pressati.
“Mi fai venire…”, sospirò ad un tratto Armando, come ad avvertirlo dell’imminente esplosione.
Ma Guido non se ne diede per inteso e continuò il suo lavoro, riuscendo anche a infilargli una mano nella patta e a cavargli fuori i coglioni, che furono presto fradici della saliva che colava lungo l’asta.
“Vengo… - gemette infine Armando in preda agli spasimi – Vengo, Guido, togliti…”
Ma Guido non si tolse, anzi, incrementò la suzione: togliersi era l’ultima cosa che voleva! Voleva invece gustare fino all’ultima goccia il succo di quel maschio che lo aveva fatto sballare fin dalla prima occhiata. Continuò a succhiare e ben presto, il cazzo gli tremolò fra le labbra, poi si tese al massimo, quasi volesse impedire al seme di uscire, e infine con un gemito liberatorio un fiotto di sugo colloso corse con uno scatto lungo tutta la grossa vena, riversandosi nella bocca di Guido, seguito da una seconda versata e poi da una terza. Il fortunato strinse le labbra sotto la cappella, perché niente gli sfuggisse, e ingoiò quella prelibatezza che gli veniva versata sulla lingua.
Poi il flusso terminò e l’uccello iniziò ad afflosciarsi, allora Guido glielo risistemò dentro le mutande, perché non gli sporcasse i pantaloni con lo spurgo residuo.
Quando ebbe finito, il giovane si contorse per rimettersi diritto: quella leva del cambio era un vero fastidio.
“E’ successo veramente?”, chiese Armando ancora incredulo.
“Penso proprio di sì. – rispose Guido, leccandosi le labbra e apprestandosi a rimettere in moto la macchina – Andiamo?”
“E tu?”
“Non c’è fretta… Mi offri sempre la colazione, vero?”
“Altroché!...”, rispose Armando, allungandogli la mano sulla coscia.
A quel contatto, Guido ebbe la tentazione di bloccare nuovamente la macchina, tanto l’eccitazione lo divorava, ma si controllò: valeva la pena aspettare, voleva fare le cose per bene.
Procedettero per un’altra quindicina di chilometri e finalmente giunsero ad un condominio alla periferia del paese. Parcheggiarono e scesero.
Non fecero in tempo a chiudersi alle spalle la porta dell’appartamento, che già erano avvinghiati l’uno all’altro, le labbra incollate, le lingue saettanti, i bacini premuti, le mani, sulla schiena, che strappavano la camicia fuori dai pantaloni e si infilavano sotto la cintura, per le prime carezze, le prime scoperte impudiche.
“Ti preparo un caffè?”, ansimò Armando fra un bacio e l’altro.
“Non dire sciocchezze…”, biascicò Guido, cercando di slacciargli la cintura.
“Aspetta… - lo fermò, allora, Armando - andiamo di là…”, e presolo per mano, lo condusse verso la camera da letto.

(continua)
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