Gay & Bisex
Roscio er Froscio - 1
di adad
03.10.2021 |
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"”, e gli dette una pacca sulla spalla, prima di salire le scale della cantina e uscire, richiudendo bene la porta..."
Si chiamava Nando, ma tutti nell’ambiente lo conoscevano come Roscio, per via della rigogliosa capigliatura biondo ramata. Era anche detto Roscio er Froscio a causa di certi suoi discutibili gusti sessuali. I tempi del politicamente corretto, o politicamente idiota, che dir si voglia, erano ancora lontani e la censura della normalità si abbatteva sui reprobi senza riguardi e senza alcuna pietà. L’unico modo per salvarsi era dimostrarsi peggio di quelli che ti censuravano e ti sfottevano, e Roscio er Froscio aveva talmente appreso la lezione, che quel “froscio” era diventato per lui un segno distintivo, un segno di cui tutti avevano timore.
Nessuno più si attentava a criticarlo, anzi bastava dire: “Mo’ lo dico ar Froscio”, che erano parecchi quelli che se la facevano sotto… e non sempre metaforicamente.
Insomma, a dispetto dei suoi gusti sessuali, Roscio er Froscio con la sua determinazione e la sua spietatezza era diventato una personalità di rilievo nel sottobosco malavitoso della Roma sorniona di quegli anni. Bisogna dire che dalla sua aveva anche un personale gradevole, un fisico di media altezza, ma ben proporzionato, un volto decisamente seducente, incorniciato da una zazzera di riccioli ramati, e un carattere carismatico che laddove non incuteva timore, incantava.
Inutile e troppo lungo sarebbe elencare i cuori infranti di uomini e donne che si era lasciato alle spalle, con la differenza che i primi qualche gratificazione l’avevano almeno avuta, le seconde invece erano rimaste del tutto a bocca asciutta… e nel vero senso della parola!
Comandava una piccola banda di sei o sette uomini, che dominava con pugno di ferro e gli erano devoti fino alla morte. Se qualcuno dovesse chiederselo, tranquilli: con loro non c’era mai stato niente di niente. Il lavoro non si mischia con il piacere.
In quel periodo, viveva nello stesso quartiere anche un furfantello da quattro soldi, detto Paoletto lo Scopino, non perché facesse quel mestiere, ma perché si arrangiava raccattando tutti quei lavoretti troppo miseri per interessare veramente qualcuno: furtarelli, piccole truffe, effrazioni ecc. minutaglia del crimine, insomma. Era sempre stato però abbastanza intelligente da tenersi lontano dallo spaccio, perché sapeva che lì i boss non scherzavano.
Purtroppo, una volta gli era andato male un affare, che non staremo qui a dire, aveva perso dei soldi, che non erano suoi, e adesso era ricercato… e non certo dalla polizia o dai carabinieri, con i quali qualche possibilità di scampo l’avrebbe avuta. No, per carità, non voglio dire che le Forze dell’Ordine non sarebbero state all’altezza di acciuffarlo, ma solo che non ci avrebbero magari messo quell’accanimento, che invece ci stavano mettendo gli uomini di un certo boss. E qui mi taccio, perché non vorrei mai che lui o qualcuno dei suoi leggessero questo racconto e capissero di chi sto parlando: dalle mie informazioni, infatti, dovrebbe essere ancora vivo e più che mai in attività.
Dunque, Paoletto doveva risarcire questo Personaggio (evito di chiamarlo Innominato, per non fare concorrenza all’Alessandro), ma non sapeva dove sbattere la testa. Erano settimane che se ne stava nascosto nella cantina di un amico, Valerio, ma sapeva benissimo che il cerchio attorno a lui si andava chiudendo e che da un momento all’altro gli sgherri del Personaggio lo avrebbero trovato, avrebbero sfondato la porta della cantina e allora addio, povero Paoletto.
Finché una mattina, preoccupato più che altro per se stesso, che gli aveva dato rifugio, l’amico si presentò e gli disse:
“Paolé, qui bisogna trovare una soluzione. Io c’ho paura: ho sentito che gli uomini di quella persona ti stanno cercando casa per casa: se ti trovano qui, sono cazzi anche per me… e io tengo famiglia, lo sai, non voglio che ci vadano di mezzo mia moglie o i miei figli. E quella gente lì non scherza, lo sai.”
Paoletto abbassò la testa.
“Capisco… - disse – hai già fatto troppo per me. Appena notte me ne vado, non ti preoccupare, un buco per nascondermi lo trovo.”
“Senti, Paolé, non devi pensare che ti sto cacciando via, ma io tengo famiglia, lo sai, e se quelli ci beccano, potremo risparmiarci le spese per il cimitero, ché di noi non troveranno più manco l’unghie dei piedi.”
Paoletto lo Scopino annuì e si guardò attorno sul punto di scoppiare a piangere.
“Sono stato uno stupido! – prese a dire – Cosa mi è passato per la testa di fare lo stronzo con quello? Proprio con lui?... è finita… stavolta è finita… Me ne vado, Valè, non voglio mettere nei guai pure a te. Aspetta solo che fa notte e me ne vado.”
“Senti, Paolé, - disse allora Valerio – una possibilità ci sarebbe. Conosco uno della banda del Roscio: gli chiedo se ci puoi parlare… Se c’è uno che può tirarti fuori dai guai è lui, il Roscio.”
“Roscio er Froscio?”
“Eh!, lui è ammanicato bene a Roma, ti può aiutare, se vuole.”
“E come lo convinco? – fece Paoletto con aria affranta – Cosa gli do in cambio?”
“Paolé, alla peggio…”, fece Valerio allusivamente.
“Ahò! Ma che, niente niente te sei ammattito?”
“A Paolé, - sbottò Valerio spazientito – meglio farti rompere il culo dal Roscio, che spezzare le ossa da… Coso, lì! Lo sai che succede a chi gli deve soldi.”
Seguì un lungo, pesante silenzio, lo Scopino sconvolto all’idea di rivolgersi al Roscio, con tutti i rischi che la sua virilità avrebbe corso, e Valerio preoccupato che l’altro potesse rifiutare, esponendolo ad ulteriori pericoli.
“E va bene… parlaci…”, disse alla fine Paoletto con tono affranto.
“Hai fatto la scelta giusta, Paolé. Vedrai che Roscio sistemerà tutto. Vado subito a cercare quell’amico mio.”, e gli dette una pacca sulla spalla, prima di salire le scale della cantina e uscire, richiudendo bene la porta.
Seguirono ore di attesa angosciosa, durante le quali Paoletto era tornato più volte sulla sua decisione, ma sempre scontrandosi con l’assioma “meglio il culo rotto, che le ossa spezzate”; e stava cominciando appena a rassegnarsi al suo destino, quando l’amico tornò.
“Tutto a posto, Paolé, - gli disse – ho parlato con st’amico mio, che ha fatto una telefonata. Er Roscio t’aspetta.”
Paoletto annuì, combattuto fra il sollievo per lo spiraglio che gli si apriva, e l’angoscia per quello che probabilmente lo aspettava.
“E non fare quella faccia, dai. – lo incoraggiò Valerio – Se sistemerà tutto, vedrai…”
“Se sistemerà tutto… - ripeté cupamente lo Scopino – è facile fa’ er froscio col culo degli altri!”
“A Paolé, - saltò su irritato Valerio – te la sei cucinata con le mani tue sta pastasciutta e mo’ te la magni!”
“Hai ragione, scusami… E grazie per quello che hai fatto. Qualunque cosa succede, ti sono riconoscente, sul serio, Valè. Sei n’amico.”, e lo abbracciò, quasi con le lacrime agli occhi.
“Dai, s’aggiusterà tutto.”, ripeté Valerio, dandogli colpetti sulla schiena, commosso anche lui e un po’ imbarazzato per quella dimostrazione d’affetto.
“Vieni pure tu?”, chiese Paoletto.
“T’accompagno fino al posto, poi devi vedertela da solo.”
Mezzora dopo, Valerio fermava la macchina davanti alla vetrina del bar Bisboccia.
“E’ qui?”, chiese lo Scopino.
Valerio annuì.
“Sì. Vai dentro e di’ al barista che te mando io e che devi vede’ er capo. Vai. S’aggiusterà tutto, vedrai.”
“Grazie, Valè… ci vediamo.”, e uscì dalla macchina, dirigendosi in fretta verso il locale.
Pochi minuti dopo, bussava trepidante alla porta degli uffici, sul retro del bar.
“Cerco il Roscio…”, disse al tipo poco raccomandabile che gli aprì.
Quello fece un cenno della testa per invitarlo a entrare e un altro per indicargli una zazzera rossa seduta ad un tavolo, di spalle, poi uscì, lasciandoli soli.
Paoletto rimase lì impacciato, non sapendo che fare, finché l’altro si voltò:
“Ah, sei tu, Scopì? – fece, alzandosi con un largo sorriso – Ho saputo che volevi vedermi.”
Paoletto conosceva il Roscio solo di fama, non lo aveva mai visto e si era aspettato chissà che tipaccio; per cui, si ritrovò mezzo spiazzato nel vedersi di fronte un giovane d’aspetto piacevole e dall’aria gioviale.
“Vieni, nun avé paura, - continuò il Roscio – ho saputo che c’hai un problema e vorresti l’aiuto mio… Siediti, e raccontami tutto. Se te devo aiutà, c’è bisogno che non me nascondi niente.”
Paoletto si sedette su una sedia, torcendosi le mani: da dove cominciare?
“Vuoi una birra, una sigaretta?”, chiese il Roscio, dandosi una vistosa sprimacciata in mezzo alle gambe.
“No… - balbettò lo Scopino – il fatto è questo…”, e cominciò a raccontargli tutta la faccenda, anche i particolari più scabrosi: c’era qualcosa in quell’uomo che stimolava a confidarsi, e lui si confidò.
“Accidenti! – commentò alla fine il Roscio – E come ti è passato per la mente di fare uno sgarbo simile a quella persona?”
“Non lo so, la faccenda mi è sfuggita di mano…”
“E adesso vuoi che ci metto una pezza io.”, era un’affermazione, non una domanda.
Paoletto non rispose, limitandosi a guardarlo con aria implorante. Il Roscio rimase lungo silenzioso, mentre lo fissava, studiandolo nei minimi particolari, avrei detto scansionandolo, ma a quell’epoca non esistevano ancora i computer.
“Se po' fa’… - disse alla fine – Ma tu sai che non è semplice… Quella persona…
Mah… mi stai simpatico, Scopì: proviamoci. Epperò… se ti faccio sto favore, tu sei in debito con me, lo capisci?”
Paoletto annuì con la testa, avendo il cuore a mille e la gola bloccata.
“Dovrai fare qualcosa per me…”
“Quello che vuoi tu… Roscio…”, riuscì a sibilare Paoletto.
“Una mezza idea io ce l’avrei…- continuò l’uomo, carezzandosi ostentatamente in mezzo alle gambe – Sei carino, lo sai?”
“Posso… posso farti un pompino…”
Il Roscio scoppiò a ridere.
“Un pompino? Considerando la persona con cui devo trattare, non ti sembra un po’ poco?… Vieni qua.”
Paoletto si alzò e si avvicinò con le gambe che gli tremavano.
“Fatti vedere.”, disse il Roscio, prendendolo per un polso e facendoselo venire più vicino.
Lo squadrò dalla testa ai piedi e gli allungò spudoratamente un paio di palpate al sedere:
“Davvero niente male… Senti, se vuoi che t’aiuti, devi darmi come minimo questo bel culetto.”
A quelle parole, il giovane si irrigidì: se l’era aspettato, certo, ma trovarsi adesso di fronte a quella richiesta lo fece star male.
“Roscio… io…”, balbettò.
L’altro lo lasciò subito andare.
“Scopì, parliamoci chiaro: tu ti sei messo nei pasticci e hai chiesto il mio aiuto. Io ti posso aiutare e ti ho detto il mio prezzo: pensaci e decidi tu. Ma ti consiglio di farlo in fretta, perché la vedi quella lucina rossa? – e indicò una spia che lampeggiava sopra la porta – significa che c’è qualcuno di là, che ti ha visto entrare e sta aspettando che esci.”
A quelle parole, Paoletto si vide perduto: da questa parte il Roscio, dall’altra quella tale persona…di qua un cazzo nel culo, di là una cassa da morto… Non ebbe bisogno di pensarci a lungo: l’istinto per la sopravvivenza ebbe la meglio.
“Vabbè, Roscio… - disse con un filo di voce – facciamo come vuoi tu.”
“Bravo, Scopì, vedrai che ti troverai bene. Aspetta qui.”
Il Roscio si avvicinò alla porta.
“A Sorcé, - chiamò – vie’ un momento.”
Tenne aperta la porta e lasciò entrare un tipo alquanto losco, che incenerì Paoletto con un’occhiata feroce.
“Che ci sta a fa’ da te quello lì?”, chiese con voce truce.
“A Sorcé, e sta bono! – rispose il Roscio, con tono conciliativo – Lo Scopino è un amico, è amico mio.”
“Begli amici che ti fai!”
“Senti, Sorcé, so che tra er padrone tuo e st’amico mio c’è una certa questione.
Famme la cortesia, digli che nun se preoccupi, che garantisco io per lui, va bene?”
“Riferirò, - disse Sorcetto – se sta bene a te…”, e uscì, dopo aver lanciato un’ultima ferocissima occhiata al malcapitato Paoletto.
“Hai visto, Scopì? È tutto risolto. Sei contento?”
Il poveretto annuì con la testa, non avendo la forza di parlare.
“Ahò, e che c’hai? – disse il Roscio – me sembra che stai a morì! E dai, non te magno mica. Su, sta bono… tranquillo… tranquillo…”
“Sì”, fece Paoletto e prese a slacciarsi la cintura dei pantaloni.
“Che fai?”, lo fermò però l’altro.
“Beh…”
Il Roscio scoppiò a ridere, gli andò vicino e gli batté la mano sulla spalla.
“A Scopì, sei proprio simpatico e me piaci, me piaci davvero. Facciamo le cose per bene, dai. Adesso andiamo su da me, vai in bagno, che ne hai bisogno, mi sa, con tutta la paura che ti sei preso, e poi ci facciamo una bella doccia, ché puzziamo tutti e due: semo malavitosi, Scopì, mica monnezzari.”
E passatogli una mano sulle spalle, lo guidò verso una porticina che dava su una rampa di scale.
(continua)
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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