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Il diavolo in corpo


di adad
01.02.2022    |    7.268    |    7 9.6
"A quel richiamo apparve un giovanetto di sedici o diciassette anni, bello di viso e l’aria impertinente..."
La notte era calata da un pezzo, quando una gragnuola di colpi fragorosi alla porta scosse la quiete della locanda della Buona Sorte, la cui insegna mostrava il volto sorridente di una zingarella, sbiadito dal tempo. L’oste, un ometto rubicondo, corse ad aprire, trovandosi davanti uno sconosciuto, il cui volto era seminascosto dalla larga tesa di un cappello piumato.
“Sono don Pedro Casillas, marchese de Las Bolas y Los Cojones - proclamò l’uomo con fare altezzoso, piazzandosi a gambe larghe sull’uscio della locanda – Fatemi entrare.”
“Prego, Eccellenza…”, fece l’oste con voce tremolante tirandosi indietro e piegandosi a metà, come poteva, in un inchino profondo.
L’uomo avanzò nella grande sala a quell’ora deserta, considerando che le leggi del Re imponevano il coprifuoco a tre ore di notte, vale a dire tre ore dopo il tramonto. Erano infatti tempi calamitosi, bande di briganti scorrazzavano per il Reame, spesso aiutate da miserabili che non avevano niente da perdere. Ma evidentemente, i proclami reali non valevano per i Grandi del Regno, che potevano permettersi di muoversi in piena notte senza alcun timore.
“Prendetevi cura del mio cavallo.”, ordinò l’uomo, mentre si sedeva ad uno dei tavoli.
Con un mezzo inchino di assenso, l’oste uscì da una porticina sul retro e si sentì impartire a qualcuno delle disposizioni, poi rientrò e si avvicinò al marchese, che si era intanto tolto il grosso cappello e lo aveva poggiato sul tavolo assieme alla spada.
“Vostra Eccellenza comanda…”, disse premurosamente.
“Da mangiare, da bere e una camera per la notte.”, ordinò l’uomo.
“Vostra Eccellenza dovrà contentarsi, - disse l’oste – è tardi e non aspettavamo ospiti di riguardo.”
“Quello che c’è, buon uomo, ho premura piuttosto di un buon letto.”
“Faccio preparare subito la camera, Eccellenza.”
Poco dopo una bella fiamma scoppiettava nel camino e lo strutto sfrigolava nella padella nera di fuliggine, mentre un grato profumo cominciava a diffondersi nello stanzone. L’oste ci ruppe dentro alcune uova assieme a una manciata di funghi, e rimestò finché non fu cotta, allora acconciò la pietanza in un piatto di stagno e la servì, con un riguardo degno di un ospite di tanto rango.
“Vostra Eccellenza perdoni la povertà del cibo… come ho detto non aspettavamo…”
Ma il marchese dopo aver dato una vigorosa annusata al piatto:
“Non vi preoccupate, mastro oste, - disse bonariamente – non è la qualità del cibo che conta, ma la maestria con cui viene cucinato.”, e infilzò col forchettone un pezzo della frittata, portandoselo alla bocca e annuendo con aria soddisfatta.
Rassicurato, l’oste tornò alle sue faccende, lasciando che l’ospite alle prese con la sua cena, che se era povera, non era per questo meno gustosa. Del resto, la locanda della Buona Sorte era nota nel circondario per la qualità della sua cucina.
Bastarono pochi minuti al marchese de Las Bolas y Los Cojones per far fuori la frittata, le
due fette di pane che l’accompagnavano e la bottiglia dell’ottimo vino di Greve. Del resto, giovane e robusto com’era, non si faceva problemi a razzolare un piatto in men che non si dica.
“Vostra Eccellenza desidera del prosciutto o del formaggio…”
“No, - rispose quello, alzandosi – desidero andare a riposare.”
L’oste gli indicò lo scalone di legno in un angolo, che portava al piano superiore.
“E’ possibile avere compagnia per la notte?”, chiese ancora il giovane marchese.
L’oste si fece paonazzo.
“Non siamo una di quelle locande, Vostra Eccellenza”, rispose, abbassando gli occhi.
Ad ogni buon conto aveva tenuto segretate in camera la moglie e la figlia.
“Va bene.”, fece il marchese con tono indifferente.
“Vi mando mio figlio, che potrà aiutarvi… Manolo!”, chiamò.
A quel richiamo apparve un giovanetto di sedici o diciassette anni, bello di viso e l’aria impertinente.
“Hai finito di accudire il cavallo di Sua Eccellenza?”, gli chiese.
“Sì, padre. Strigliato a dovere e rifocillato di buona avena e fresca acqua di torrente.”
“Bene, - disse l’oste - allora, accompagna Sua Eccellenza nella sua camera e aspetta i suoi ordini.”
Manolo prese la candela accesa che il padre gli porgeva e si avviò verso lo scalone di legno, seguito dal marchese. Sul momento il ragazzo aveva degnato lo sconosciuto solo di un’occhiata fuggevole nella penombra della grande sala, alquanto seccato da quell’incombenza che scompigliava i suoi programmi per la nottata; ma già salendo lo scalone e poi lungo il corridoio, dal respiro, dal passo pesante, dall’odore cominciò a sentire tutta la fisicità di quella presenza maschile alle sue spalle. Si sentì prudere leggermente la nuca, come gli succedeva quando la tensione prendeva a serpeggiargli sotto la pelle.
Una volta in camera e accese altre candele, Manolo ebbe modo di rimirarlo per bene ed ebbe un fremito di conferma, notando il bel volto dell’uomo, nonché il portamento fermo e deciso di chi sa il fatto suo.
A questo punto, prima di procedere oltre, occorre fare alcune precisazioni, la prima delle quali è che Manolo, nonostante la giovanissima età, non era quello che si direbbe uno stinco di santo. Per carità, era un bravissimo ragazzo, rispettoso, lavoratore e quant’altro di buono si potrebbe dire… solo che… insomma, non c’è un modo elegante per dirlo: nutriva un malsano interesse per i bipedi umani che indossavano le braghe, anziché la gonnella… Che dire? ognuno ha le sue inclinazioni e, come dicevano i nostri avi Romani: de gustibus non disputandum… motto che un arguto poeta tradusse: sui gusti non si sputa!
Dicevamo, dunque, che Manolo non riusciva a resistere al fascino dei bei giovanotti.
Fino ad allora, però, vista anche la sua giovanissima età, si era limitato ad ammirarli e slumarli, seguendoli magari di nascosto, se li vedeva appartarsi, e spiandoli mentre espletavano qualche loro bisogno naturale.
Organi maschili, quindi, ne aveva visti e anche in discreta quantità, ma fino ad allora non aveva avuto modo di passare alle vie di fatto, anche se francamente ne aveva una gran
voglia e non vedeva l’ora.
Possiamo immaginare, pertanto, il brivido di giovanile libidine che lo percorse, non appena ebbe modo di ammirare a suo bell’agio e da vicino quel magnifico giovanottone di don Pedro Casillas. Il cazzo già adulto gli schizzò turgido nella braghetta, versando una generosa colata di spurgo. Per fortuna, la luce ovattata delle candele gli permetteva di nascondere certi inconvenienti.
Dopo un attimo di esitazione, Manolo corse verso il letto, tanto per darsi tempo di riprendere il controllo, scostò le coltri e sprimacciò il cuscino.
“Il vostro letto è pronto, Eccellenza.”, disse voltandosi.
Don Pedro, accennò di sì con aria assonnata, poi si liberò del mantello, gettandolo su una panca, assieme al cappello e alla spada; poi si stravaccò su un seggiolone e allungando una gamba verso Manolo:
“Toglimi gli stivali.”, gli ordinò.
Il ragazzo accorse, gli afferrò il piede, dandogli le spalle, e glielo tolse, senza eccessiva fatica. Poi passò all’altro, quindi prese entrambi gli stivali e li andò a deporre accanto alla porta. La fragranza sprigionata dalle calze sudate del marchese non sarebbe stata delle più gradevoli per i nostri nasi raffinati, ma a quei tempi di scarsa igiene, diciamolo una volta per tutte, ci si era assuefatti e certi odori non destavano né sconcerto, né repulsione. Diciamo che le persone sapevano sorvolare sugli aspetti secondari e andare al nocciolo della questione.
Manolo, quindi, non fece una piega a quell’odore graveolente: tutto sommato aveva sentito di peggio… e poi un marchese ha il diritto di puzzare come e quanto vuole!
Cavati gli stivali, don Pedro si alzò in piedi e, con le mani ai fianchi, così che il ragazzo poté slacciargli la giubba e il farsetto, che appese a delle stanghe; quindi, con le mani che comprensibilmente gli tremavano, sciolse i lacci dei calzoni a sbuffo e glieli sfilò, lasciandolo in calze e mutande.
A questo punto, la testa del povero Manolo girava alquanto vorticosamente, mentre l’eccitazione gli bruciava nel sangue, quasi disidratandolo. Aveva infatti la gola secca e respirava con un certo impaccio. Ma fu quando don Pedro tornò a sedersi e gli allungò prima un piede, poi l’altro, per farsi sfilare le calze, che Manolo quasi collassò. Chinato com’era, infatti, ebbe una panoramica in primo piano del bozzolo che si gonfiava voluminosamente alla convergenza delle cosce muscolose… L’emozione fu grande: mai si era trovato a distanza così ravvicinata dall’oggetto del suo desiderio, mai ne aveva sentito l’odore… quell’odore pungente… caldo… così terribilmente… Senza volerlo, Manolo si ritrovò a chiudere gli occhi e fare un profondo respiro. Si rese conto di essere diventato rosso come un peperone, allora si tirò indietro e si voltò, dirigendosi verso il letto, come se volesse lisciare per bene le lenzuola.
Quello strano comportamento non sfuggì al marchese, che lo attribuì, però, al disagio di trovarsi alla presenza di una così alta personalità. Stava per dire qualcosa, quando Manolo lo prevenne.
“Eccellenza, - disse – dietro quella tenda – e indicò una nicchia nella parete – c’è un vaso per i vostri bisogni…”
“Molto bene, prendilo.”
E quando Manolo glielo presentò, don Pedro ai alzò e senza il minimo imbarazzo, cavò fuori il grosso uccello dalle mutande e prese a pisciare. La vista del serpentone carnoso mezzo scappellato, l’odore dolciastro del piscio, che cadeva rumorosamente nel vaso…
Manolo si leccò le labbra e strinse forte i manici, temendo che potesse sfuggirgli di mano.
Una volta che ebbe finito, don Pedro se lo scosse energicamente, incurante di
spedirgli qualche goccia addosso, poi se lo rimise dentro e Manolo andò alla finestra, rovesciando il pitale sulla strada, incurante a sua volta se qualcuno si trovasse a passare. Rimesso il vaso al suo posto, il ragazzo raggiunse il marchese, che nel frattempo si era disteso letto e si toccava con aria assorta in mezzo alle gambe. Le belle cosce robuste e pelose erano leggermente divaricate.
Manolo si accorse con un fremito che il serpentone aveva preso più consistenza… si sentì un vuoto alla bocca dello stomaco.
“Vostra… Eccellenza… - riuscì a balbettare con la bocca secca – avete altri ordini?”
Don Pedro lo guardò, come riscuotendosi da chissà quali pensieri.
“Come? – disse – Altri ordini? Sì, spegni le candele… lasciane solo una… poi siediti lì – e gli indicò una sediola ai piedi del letto – potrei ancora aver bisogno di te.”
L’unica candela rimasta accesa sul tavolo illuminava fiocamente la camera, creando dense zone d’ombra negli angoli più lontani. Don Pedro riprese a toccarsi e, dalla sua posizione, era solo grazie al biancore opaco degli indumenti che Manolo distingueva bene l’ormai evidente turgore del suo organo. Cominciò a sentirsi sulle spine, mentre l’altro proseguiva le sue innocenti manovre, finché:
“Vostra Eccellenza, forse vi farebbe bene della compagnia per la notte…”, disse con un filo di voce.
L’altro sembrò non udirlo, ma dopo un po’:
“Tuo padre ha detto che voi non siete una di quelle locande!”, disse con sprezzo.
“Sì… ma forse, potrei…”, balbettò il ragazzo, mentre si alzava e, avvicinatosi, allungava una mano a sfiorargli la borsa delle palle.
“Cosa fai, gaglioffo!”, insorse don Pedro, allontanandogli bruscamente la mano.
Ma Manolo non demorse, ormai aveva perso ogni controllo e il suo unico obiettivo era mettere le mani sul birillone che a dispetto di tutto tendeva con grottesca oscenità il fine tessuto delle mutande.
In condizioni normali, Manolo sarebbe scappato via a nascondersi nelle latrine dietro la stalla, ma in questo momento, quasi fosse invasato, era la fregola che ragionava al posto suo e gli dettava le regole; così, tornando a poggiargli la mano sulle palle:
“Vostra Eccellenza ha bisogno di darsi sollievo, - disse – e mio padre ha detto di soddisfare i vostri bisogni.”
“Non credo che alludesse a questo.”, ironizzò don Pedro, ma senza allontanargli la mano, stavolta, anzi scostando la sua e lasciando che il ragazzo gli impugnasse l’organo, al quale non interessava certo di chi fosse la mano che lo impugnava. E infatti rispose con un brivido e una copiosa colata di presborra.
Vistosi concedere libero passo, Manolo non ci mise molto a tirarlo fuori dalle mutande bagnate e gli occhi gli brillarono, quando per la prima volta ebbe modo di impugnare un cazzo duro, stringerlo, sentirne il calore e la sofficità della guaina, che scorreva su un’anima rigida… Aveva immaginato chissà quante volte questo momento, ma nessuna delle precedenti fantasie poteva eguagliare l’intensità del momento che stava vivendo.
Solo che adesso non sapeva più che fare: erano tante le cose che aveva immaginato durante le sue folli masturbazioni, che adesso non sapeva da dove cominciare.
Si accorse che don Pedro si era sistemato con le mani dietro la nuca e lo fissava con un sorriso beffardo, allora con mosse incerte cominciò con un certo impaccio a muovere la mano su e giù.
Bisogna riconoscere, onestamente, che per tanto esperti possiamo essere, non è facile masturbare il cazzo di un altro: non c’è da meravigliarsi, quindi, della difficoltà con cui Manolo muoveva i suoi primi passi. I frutti del suo lavoro non erano esaltanti, per quanto l’uccello di don Pedro, forse più istintivo e meno esigente del suo padrone, guizzasse e spurgasse di goduria, pur sotto quelle maldestre manovre.
“Questo è tutto quello sai fare?”, sbottò ad un tratto il marchese, tra l’ironico e il seccato.
Manolo si bloccò, confuso, poi, senza sapere neanche lui cosa stesse facendo, si chinò e prese fra le labbra la cappella sbavata, continuando nel frattempo a masturbare la mazza con la mano.
Il sapore non era comprensibilmente dei migliori, ma Manolo non capiva più niente, forse neanche si rendeva conto di tenere un cazzo in bocca. Per don Pedro, invece, fu una sferzata di libidine assoluta.
“E questo dove l’hai imparato?”, boccheggiò, neanche lui aduso a simili trattamenti.
Provò un senso di schifo all’idea che il ragazzo tenesse in bocca il suo cazzo, la sola idea lo faceva vomitare. Ma accidenti, se era piacevole sentirsi la cappella avvolta dalle calde pareti della bocca e stimolata dalla lingua… succhiata come la poppa di una vacca!
Avrebbe voluto dirgli di fermarsi, che forse fare quelle cose con un uomo non è corretto, non va bene… ma perché, se era stato lui, Manolo, a cominciare e, a quanto pareva, se la stava godendo un mondo?
Continuando a poppare, il ragazzo era salito sul letto e gli si era accosciato al fianco, così che venne facile e naturale a don Pedro poggiargli una mano sulla schiena e poi spostarla lentamente verso il fondoschiena. Bisogna dire che non fu un’azione programmata, non fu un gesto intenzionale: diciamo che negli spasimi del piacere, la mano rispose all’istintività primordiale del maschio, quella che lo stimola a palpare il culo della sua preda, quasi pregustandone il possesso. Certo, nella fattispecie di don Pedro, si era trattato finora di culi femminili, ma la mano non ha mica gli occhi per vedere dove si posa!
Si allunga, tocca e se sente qualcosa di piacevole, insiste e persiste. E in effetti, sentendo al tatto e al liscio le due sode rotondità di Manolo, la mano di don Pedro si infervorò, palpando e pastrugnando, al punto che la sua mente obnubilata dal piacere e dalla lussuria, non si chiese minimamente a chi quelle chiappe potessero appartenere, ma, trovata la cintura delle braghe ci si infilò sotto, vieppiù eccitandosi al contatto della pelle calda e liscia più della seta.
Ora, come accade al beone che quanto più gli si riscalda la gola, tanto più tracanna smodatamente vino e liquori, lo stesso avvenne a don Pedro Casillas che, ritrovandosi col cazzo infuocato, tanto più all’approssimarsi dell’orgasmo, perse del tutto il lume della ragione e, saltato addosso al ragazzo, gli strappò via i calzoni, gli allargò con brusco gesto le belle chiappe, fissò allucinato la rosellina fremente, ci sputò sopra e ci conficcò d’istinto l’uccello.
Manolo non era preparato a questo, nella sua inesperienza non lo aveva previsto, forse neanche immaginato, e il dolore improvviso lo trafisse; tuttavia, riuscì a reprimere in un guaito soffocato il grido che gli strozzava la gola: l’ultima cosa che voleva era che qualcuno lo sentisse e accorresse a vedere. Magari suo padre! La presenza del marchese lo avrebbe messo per il momento al riparo, ma poi… quando don Pedro fosse andato via?... gli avrebbe come minimo fracassato sulla schiena i manici di tutte le ramazze della locanda!
Così, strinse i pugni e sopportò l’assalto, che per sua fortuna fu breve: il marchese infatti era talmente sovraeccitato, che gli bastò affondare poco oltre la cappella nel buco strettissimo di Manolo, per essere spedito in uno degli orgasmi più esplosivi della sua carriera di amatore.
“Tu devi avere il diavolo in corpo, ragazzo, - disse il giovane più tardi – non me l’ero mai goduta così tanto!”, e gli diede un buffetto sulla guancia.
Per tutta risposta, Manolo raccolse il cazzo ormai floscio, che giaceva sul folto ciuffo ricciuto, e slinguò la pozzetta formata dal prepuzio tutto tirato in su. Don Pedro ebbe un fremito.
“Rimani qui, - gli disse – non abbiamo ancora finito.”
Mancava poco a mattutino, quando Manolo sgusciò fuori dalla camera di don Pedro e raggiunse il suo letto. Camminava a gambe larghe e aveva la mascella indolenzita, ma era al settimo cielo: finalmente aveva realizzato i suoi sogni più fervidi.
Il marchese si alzò molto tardi, quella mattina: fece le sue abluzioni e poi scese nella sala e, dopo un’abbondante colazione, chiese il suo cavallo.
Pagò quanto dovuto, poi al momento di partire:
“Vostro figlio, mastro oste, - disse con noncurante alterigia – viene con me. Lo prendo come valletto.”
“Ma, Vostra Eccellenza, - balbettò l’altro - Manolo mi serve qui… la locanda…”
Senza neanche degnarlo di uno sguardo, il marchese don Pedro Casillas de Las Bolas y Los Cojones, si staccò una borsa dalla cintura e la lanciò sul tavolo, dove cadde tintinnando. L’oste la raccolse e l’aprì e alla vista dei bei maravedi d’argento, piegandosi a metà, per quanto poteva, in un inchino profondo:
“Come Vostra Eccellenza comanda…”, disse in tono umile e rassegnato
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