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Minervino - 1


di adad
20.04.2019    |    10.740    |    5 9.5
"”, disse Minervino, sorpreso dalla risposta nient’affatto scontrosa dell’altro..."
Si chiamava Minervino.
All’inizio se ne era vergognato, si chiedeva cosa diavolo era passato per la testa ai suoi genitori per dargli quel nome; aveva cercato di nasconderlo sotto qualche diminutivo, tipo Mino.
Ma quel nome era sempre lì a perseguitarlo: sui documenti pubblici, “Minervino Gatteschi”, i professori a scuola, “Minervino, cosa mi sai dire di…”, i compagni, di classe e non, con feroce sadismo, “Minervino, Minervino, getta l’acqua e bevi il vino.” Avrebbe voluto sprofondare ogni volta sotto terra.
Ma poi, crescendo, ci aveva fatto l’abitudine; anzi, ne aveva scoperto l’aulica bellezza, ne aveva assaporato la musicalità e il dolce sentore delle buone letture di un tempo.
Era oltretutto un nome che gli calzava benissimo: piccolo di statura, ma dolce e aggraziato com’era; i lineamenti fini e i modi naturalmente eleganti. Non era bello in modo particolare, bisogna riconoscerlo, ma il suo volto conquistava a prima vista per la singolare profondità del suo sguardo e i capelli di un castano luminoso, leggermente mossi.
Tutto ok, allora? Ahimé no: Minervino si era dimostrato immune al fascino delle sue compagne di scuola e ne aveva simpaticamente rintuzzato gli assalti, arrivando ancora vergine alla veneranda età di diciotto anni, quando ormai era alle soglie della maturità.
Viceversa, tutt’altro che immune aveva scoperto di essere al fascino dei compagni di scuola, di uno in particolare, Federico Ramelli, per il quale avrebbe dato chissà cosa, ma che viceversa non solo lo ignorava, ma sembrava insofferente ad ogni eventuale gesto di cortesia che Minervino gli rivolgeva, rivolgendoglisi sempre in maniera sgarbata e irridente.
Insomma, si è capita: Minervino era gay. Quando se ne erano resi conto, i suoi ne avevano fatto una malattia, ma non avendo il coraggio di affrontare l’argomento con lui, si erano rifugiati nella comoda posizione di chi non sa e non si accorge di niente; e in effetti di Minervino e del suo modo di comportarsi non c’era niente di cui “accorgersi”.
Era iniziato l’ultimo anno di liceo e le cose procedevano a gonfie vele per il ragazzo, che non aveva mai avuto difficoltà nello studio; diverso era per qualcun altro, in particolare per il bel Federico, che un giorno, mentre tutti gli altri erano fuori per l’intervallo, Minervino trovò in classe da solo, seduto al suo banco con i gomiti sul tavolo e la fronte poggiata sui pugni chiusi, a fissare con aria sconsolata un libro aperto.
Quando lo vide, Minervino si bloccò e rimase un momento incerto se fare quello per cui era venuto e poi sgattaiolarsene via in silenzio o rivolgergli la parola per un saluto che, già sapeva, sarebbe stato accolto malamente.
Lasciandosi vincere dalla simpatia che provava per lui:
“Ciao, - fece in tono cordiale – cosa fai qui tutto solo?”
Contrariamente alle aspettative, Federico sollevò la testa e:
“Sta cazzo di trigonometria mi sta facendo impazzire…”, mormorò stancamente.
“In effetti è un osso duro.”, disse Minervino, sorpreso dalla risposta nient’affatto scontrosa dell’altro.
“Non certo per te, che sei un secchione del cazzo!”, fece Federico, tornando a fissare sul testo gli occhi vacui.
Minervino non se la prese: questo era niente, in confronto ad altre sgarberie che aveva patito, anzi sorrise e avvicinandoglisi:
“Se vuoi, posso darti una mano.”, gli fece.
Federico non si mosse. Poi sollevò la testa:
“Sul serio?”, chiese, guardandolo con occhi speranzosi.
“Se vuoi… Ma a una condizione, però.”
Federico lo fissò con aria scettica:
“Che cosa vuoi?”
“Che non fai più lo stronzo con me e mi tratti con gentilezza.”
“Contento tu…”, fece spallucce Federico.
“Bene, allora passa da me oggi pomeriggio. Ok alle quattro?”
“Ok”.
Per il resto della mattinata, a Minervino sembrò di camminare a tre metri da terra: finalmente era riuscito ad aprire un canale di comunicazione con Federico, avrebbero trascorso del tempo insieme… d’accordo, a studiare quella pizza di trigonometria, ma gli sarebbe stato vicino, avrebbero parlato, con un po’ di fortuna sarebbe riuscito a passargli una mano sulla spalla… e si immaginava la pantomima che avrebbe fatto per giustificare il suo gesto.
Alle quattro non si presentò nessuno… e nemmeno alle quattro e mezzo… Minervino cominciava a sentirsi deluso e amareggiato per quella che sembrava un’ulteriore presa per i fondelli da parte del compagno… Ma alle cinque il campanello suonò. I suoi non c’erano, così Minervino scese di corsa le scale per andare ad aprire.
“Scusa il ritardo, - disse Federico con aria mogia – ma mia madre non voleva credere che sarei venuto a studiare da te…”
“Non fa niente. Dai, vieni.”, gli fece strada Minervino, accompagnandolo nella sua camera, al piano di sopra.
Si sedettero fianco a fianco al tavolino e Minervino passò un’ora a cercare di sbrogliare i dubbi intricati di Federico, il quale, bisogna dirlo, si dimostrò un allievo molto attento e volenteroso , lasciando perfino che l’amico gli si accostasse e gli passasse un braccio sulla spalla nella foga della spiegazione. Finalmente, un po’ di luce sembrò apparire nelle tenebre:
“Allora, questo significa che la cotangente…”, proseguì Federico per quanto ancora insicuro nell’esposizione.
“Esatto! – esultò Minervino – Hai visto che non era poi così difficile?”
“Wow!”, e si diedero il cinque.
Andarono avanti ancora un po’, poi:
“Adesso basta, però, - fece Federico, chiudendo il libro e mettendolo via – mi si sta squagliando il cervello.”
Poco dopo erano sdraiati sul letto a guardare un telefilm di cui si erano scoperti entrambi appassionati; ma la loro mente sembrava essere altrove.
“Se vuoi… possiamo fare ancora qualcosa domani…”, azzardò ad un tratto Minervino.
“Sei gentile.”, rispose Federico, continuando a fissare il teleschermo.
Rimase a lungo in silenzio. Poi riprese:
“Davvero non me l’aspettavo da te.”
“Cosa?”
“Che mi dessi una mano… Senti… Puoi farmi un pompino, se ti va.”
“Cosa?”, si stupì Minervino, mentre una vampata di calore lo avvolgeva e gli faceva diventare le guance rosso fuoco.
“Ma dai, Mino, lo so che sei gay e so anche che ti piaccio: credi che non mi sono accorto delle tue occhiate? E anche adesso, vuoi negare che hai continuato a guardarmi in mezzo alle gambe?”
“Prima di tutto, mi chiamo Minervino…”, fece lui nel tentativo di riprendere un minimo di controllo.
“Ok, ok, ti chiami Minervino. E ok non sei gay, e ok mi sono sbagliato e bla, bla, bla.. Però hai continuato a strusciarmi la mano sulla coscia fino a un momento fa. - disse Federico con un sorriso ammiccante.
E con queste parole, si tirò a sedere, appoggiandosi alla spalliera del letto,
e si slacciò i pantaloni, calandoseli fino a mezza coscia.
“Dai, serviti pure.”, continuò, tirandosi giù anche i boxer celestini, fino a scoprirsi il pube, l’uccello semiduro adagiato sul folto ciuffo di peli crespi.
Le grosse palle erano ancora coperte dall’elastico dei boxer, ma Federico infilò la mano e le estrasse con un movimento a cucchiaio, adagiandocele sopra con una sorta di compiacimento, mentre il cazzo gli si sollevava a scatti fino al pieno turgore.
È difficile immaginare cosa stesse provando in quel momento il povero Minervino: da un lato scopriva una falla in quello che riteneva il suo segreto meglio nascosto, dall’altro si vedeva scodellare sotto il naso quello che da tempo più desiderava, quello su cui aveva tanto fantasticato nelle notti insonni: l’uccello del suo idolo, su cui tante volte si era masturbato, versandosi addosso fiumi di sborra.
La testa gli andò in confusione, rimase lì inerte col cuore a mille, respirando a fatica fra le labbra dischiuse, senza sapere cosa dire, né cosa fare, finché Federico, più scafato di lui, gli prese la mano e se la portò al cazzo.
“Dai, - gli disse con una certa dolcezza – è tutto tuo.”
Inconsapevolmente, Minervino strinse la mano attorno a quel gambo così caldo e… grosso; ma dopo un attimo lasciò la presa, quasi schifato, pur continuando a tener gli occhi fissi sul magnifico organo.
Era la sua prima volta e tutto stava succedendo troppo in fretta, troppo fuori dal suo controllo: non è così che se l’era immaginato.
Federico gli riprese la mano e se la riportò al cazzo, vincendo la leggera resistenza.
“Non aver paura, - mormorò – non lo dirò a nessuno.”
Per un istante Minervino lo guardò negli occhi e Federico, sorridendo, gli fece l’occhiolino; poi gli poggiò una mano sulla nuca e fece una leggera pressione.
Minervino cominciò a chinarsi… si sentiva la bocca asciutta e lo stomaco sottosopra… L’odore pungente del sesso di Federico, ormai in piena erezione e bagnato all’inverosimile, gli diede un senso di ribrezzo… si bloccò, indeciso... E se non gli fosse piaciuto… se il sapore lo avesse disgustato… se quell’affare in bocca lo avesse fatto vomitare… Già si sentiva un senso di nausea nello stomaco…
Resistette alla leggera pressione che Federico esercitava, poi, il suo naso cominciò ad abituarsi all’afrore intenso, tutt’altro che rivoltante adesso, le ghiandole salivari ripresero ad irrorargli il cavo orale, l’esitazione si mutò in incertezza e infine in desiderio. Minervino percorse l’ultimo tratto di avvicinamento, senza più bisogno di pressioni o incitamenti. Poggiò le labbra sulla superficie viscida del glande, poi si trasse indietro, leccandosele, come a prova; esitò, combattuto dal desiderio ormai incontrollabile e dalle residue paure; poi dischiuse le labbra e accolse nel cavo orale la cappella rorida. La lingua inizialmente ritratta, ultimo riflesso condizionato delle sue paure, lentamente si mosse ad avvolgere la punta smussata del cazzo di Federico, a gustarne il sugo amarognolo, ritrovandosi infine a spremersela contro il palato.
Quei sapori, nuovi per lui, furono un’esplosione di sensualità e di libidine. Sentì il sospiro di soddisfazione dell’amico, ne avvertì i tremiti di piacere e questo lo infervorò ancora di più. Si diede, allora, a succhiare come meglio poteva, mentre Federico gli carezzava dolcemente i capelli, con un sorriso beato sulle labbra.
Non era certo il primo pompino che li facevano, e questo non era dei migliori, ma c’era la soddisfazione che a farglielo fosse uno dei primi della classe, uno a cui si era sentito inferiore fino a poco prima e che ora, invece, riteneva un premio speciale succhiargli il cazzo.
“Bravo, pompinaro, succhia l’uccello del tuo amichetto; succhiaglielo bene… fallo godere… Dai, fammi sborrare…”
E quelle parole erano benzina sul fuoco che bruciava nella mente e nel corpo di Minervino. Poi, tutto si compì: con un gemito prolungato, Federico si inarcò, il cazzo gli si tese, quasi gli stesse per scoppiare, e dopo un istante surreale di immobilità , la sborra prese a risalire la grossa vena, fiottando una scarica dopo l’altra di sugo denso.
Minervino si tirò indietro di scatto, con un filo di sperma che gli colava dal labbro inferiore. Fissava la pancia dell’amico, che si andava ricoprendo di liquido biancastro, quasi incapace di immaginare che fosse stata opera sua. In realtà, non aveva ancora realizzato di aver fatto un pompino, di aver succhiato l’uccello del ragazzo che più lo aveva infervorato in quegli ultimi anni.
Quando si riscosse:
“Aspetta”, disse a Federico e andò in bagno a prendergli un asciugamano.
“Allora, ti basta come compenso per la tua lezione?”, fece Federico, pulendosi e risistemandosi i pantaloni.
Ma non c’era ironia nelle sue parole: bensì, quasi un tentativo di superare il suo stesso disagio.
Minervino fece cenno di sì con la testa e si avviò con lui verso la porta.
“A domani, stessa ora?”, fece Federico, voltandosi sull’uscio e dandogli un buffetto scherzoso sulla guancia.
“A domani.”,rispose Minervino con voce spenta.
Una volta rimasto da solo, tornò nella sua camera, raccolse l’asciugamano intriso del seme dell’amato e ne aspirò l’aroma intenso. Poi si rannicchiò sul letto e continuò a respirare, ad occhi chiusi, quell’odore per lui inebriante.

(Continua)
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