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Gay & Bisex

Er barcarolo va...


di adad
19.10.2023    |    679    |    5 9.8
"Sposato con la prosperosa sòra Olimpia, era il proprietario della trattoria “Alla Bella Trasteverina”, la quale trasteverina compariva in bella pittura, sia..."
“Er barcarolo va contro corente
Si jielo sbatti ar culo se risente…”,

cantava a squarciagola Tommasino, parodiando una canzone molto in voga in quegli anni e pigliandosela comoda su un barchino sgangherato al centro del Tevere.
“A Tommasì, - urlò alla sua volta il padrone che lo aspettava sulla riva – si nun te sbrighi a venni, t’ho o sbatto io a te e to o faccio sortì fora da la bocca!”
“A sor Ce’, - rispose sfrontatamente il ragazzo, accostandosi al pontile e saltando a terra – e si mo o fate sortì da la bocca, non c’avete paura che vo o mozzico?”, e scoppiò in una risata sguaiata, sottraendosi con un balzo all’indietro allo sberlone che fece in tempo a veder arrivare.
“Si te pijio!”, lo minacciò sor Casare, ridendo pure lui.
Ma vediamoli più da vicino i personaggi della nostra storia: il primo, sor Casare, era un bell’uomo, tuttora aitante e rigoglioso, nonostante avesse passato i quaranta anni. Sposato con la prosperosa sòra Olimpia, era il proprietario della trattoria “Alla Bella Trasteverina”, la quale trasteverina compariva in bella pittura, sia pure un po’ arrugginita e slavata da almeno cento anni di piogge, nell’insegna di ferro attaccata sopra la porta, opera di chissà quale anonimo artigiano dei secoli passati.
L’altro protagonista era il giovane Tommasino, orfano diciassettenne, di cui nessuno conosceva le origini: quando si era presentato alla trattoria anni prima, a chiedere l’elemosina con aria sfrontata, sor Casare lo aveva preso a garzone, più che altro per carità cristiana, pur non essendosene mai pentito. Il ragazzo, infatti, per quanto sfacciato e a suo modo ribelle, si era dimostrato da subito un buon lavoratore, facendosi con questa qualità perdonare tutto il resto.
La scena? Beh, la scena è la Roma de quegl’anni, esuberante, sporca e caciarona, ma ancora bella in maniera struggente e piena di vita come non mai.
“Movite, Tommasì, - disse sor Casare – movite che abbiamo parecchio da fare: stasera c’è quella comitiva de bancari milanesi a cena e quelli vonno magnà bene. E la Bella Trasteverina non li po' delude, ché poi quelli sai quante ce ne dicono a noi Romani. Vai, corri da sor Emilio, er macellaro, ché gli ho telefonato e sta preparando la roba. Coda alla vaccinara, abbacchio a scottadito e tutte le specialità romanesche de li mortacci sua!”, concluse, mentre Tommasino saltava sulla bici per andare dal macellaio.
Seguirono ore di frenetica attività nella cucina della trattoria, a preparare le
prelibatezze culinarie richieste dagli ospiti milanesi. Sor Cesare correva da una
padella all’altra, assaggiava, grugniva, aggiungeva dove un po’ di sale, dove un po’ di pepe, dove un pizzico di altri aromi; Tommasino gli ronzava attorno, sminuzzando verdure e assaggiando a sua volta, quando il padrone era distratto. Il che non lo esentava, però, dal ricevere qualche bonario scapaccione, non appena sor Cesare girava la testa:
“Lassa sta quella roba! – gli intimava allora – ché se me rovini l’intingolo, te faccio fa la fine della bella trasteverina!”
“E quale sarebbe?”
“La so io e tu è meglio che nun la sai!”, gli rispose sor Cesare come le altre volte.
Ma non c’era acredine, né malanimo in quelle parole: non ce n’era mai nel suo tono pur burbero, e meno ancora ce n’era quel giorno. Anzi, sor Cesare sbirciava con simpatia ancora maggiore la snella figura del ragazzo, che gli lavorava accanto. Anzi, più che simpatia. Ricordava la prima volta che si era presentato alla trattoria con quella sua aria bulletta, chiedendo qualcosa da mangiare… quanti anni erano passati… era un ragazzino allora, e adesso?
Adesso era un bel ragazzo, davvero un bel ragazzo. Ancora sfacciato e impunito, ma bravo lavoratore: quando c’era da fare, faceva, e senza tante storie.
All’improvviso, senza motivo, gli tornarono in mente le parole che gli aveva detto prima… t’ho ‘o spigno io a te e to o faccio sortì fora da la bocca… Ma cosa gli era passato per la testa, si chiese, quando mai gli era venuto un pensiero del genere? Pazzesco! Ma, involontariamente, volse la testa e sbirciò con la coda dell’occhio il giovane assistente, che gli dava le spalle. E nel mentre si sentiva invadere da un’ondata di affetto, lo sguardo gli scivolò lungo la schiena, soffermandosi sulle procaci rotondità del giovane culo fasciato dai jeans.
“Ma che cazzo sto facendo?”, si riscosse, tornando alle sue occupazioni.
Non aveva mai provato interesse per il culo e men che meno per quello maschile: e che diavolo!, non era uno di quei debosciati che non si contentano più delle donne e vanno a caccia di froci sulle banchine del Tevere per ficcarselo in culo l’uno con l’altro! Ma il tarlo gli era ormai entrato in testa… e di quei tarli non ti liberi facilmente, specie se scendono fino al cazzo e, prima che te ne accorgi, cominciano a roderti le palle.
Sor Cesare, prese un pezzo di guanciale affumicato e cominciò ad affettarlo per la carbonara, ma il cervello lavorava per conto suo e ad un certo punto mancò poco che si affettasse pure un dito.
“Li mortacci…”, esclamò, leccandosi la scalfittura, da cui usciva un’ombra di sangue.
“Che succede, sor Ce’, ve sete tajiato? – disse Tommasino, voltandosi e vedendo il padrone che si succhiava un dito – E che c’avevate per la testa?”
“C’avevo er culo tuo!”, mugugnò l’altro di cattivo umore.
“Er culo mio? – scoppiò s ridere il ragazzo – Niente, niente sete pure voi come certi bavosi che me toccano mentre li servo al tavolo?”
“Come, te toccano? – scattò inviperito sor Cesare – e nun m’hai detto mai niente?”
“E che dovevo dirvi? Che me palpano er culo? E chi se ne frega, a sor Ce’: si je piace, che s’accomodino pure. Vòr di’ che ce l’ho bello!”
“Ma come ragioni?”
“A sor Ce’, e nun la fate tragica, mica me violentano… anzi, alla fine me lassano de quelle mance!...”, ghignò il ragazzo tornando a preparare la marinatura per le cotolette d’abbacchio.
Sor Cesare rimase sbalordito, soprattutto perché cominciava a vedere Tommasino sotto una luce del tutto diversa: sempre sfrontato, ma più maturo, più consapevole, in un certo senso, della realtà della vita. C’era qualcos’altro, però… qualcos’altro che non riusciva a mettere a fuoco. Tornò ad affettare il guanciale.
“E così, - disse con tono scherzoso, ma forse non troppo – tu lo daresti via per soldi?”
“E per chi m’avete preso, sor Ce’, pe’ na mignotta? – rispose scherzosamente il ragazzo, continuando il suo lavoro – Semmai lo darebbe via per amore… Solo per amore.”

La serata era andata nel migliore dei modi: la comitiva di banchieri milanesi si era rivelata un po’ chiassosa, ma di buona forchetta e sor Cesare si era guadagnato calorosi elogi, riconfermando la “Bella Trasteverina” una delle migliori trattorie della città. Quanto a Tommasino… beh, c’è da dire che si guadagnò parecchie mance extra quella sera, e non occorre che dica altro.
Il guaio è che tutte quelle occhiate e quelle palpate indiscrete, gli avevano smosso la verminaia e messo un certo fuoco addosso. In altre occasioni, non avrebbe visto l’ora di ritirarsi in camera e spararsi un ricco pippone; ma quella sera, si sentiva tutta questa smania nelle ossa, che non aveva nessuna voglia di andarsene di sopra. Continuava a cincischiare, mentre assieme a sor Cesare facevano una pulizia sommaria della cucina. Era passata da un pezzo la mezzanotte: la sòra Olimpia se n’era andata a letto da un pezzo e sor Cesare stava infilando i piatti nella lavastoviglie. Era in canottiera e l’odore acre delle ascelle sudate gli aleggiava attorno, diffondendosi per il locale.
Tommasino lo guardava di sottecchi e cercava ogni pretesto per andargli vicino e respirare quell’aroma, che trovava così voluttuoso. Ma anche sor Cesare lo guardava di sottecchi, sentendosi prendere da un languore strano, a cui non sapeva dare un nome.
“Ho visto che hai fatto parecchie mance, stasera…”, disse ad un tratto con voce afona.
“Abbastanza…”, confermò il ragazzo, arrossendo.
Seguì un lungo silenzio, un silenzio surreale in quella cucina, tuttora ingombra di avanzi e sotto la luce cruda delle lampade al neon. Ma ancora più surreale fu quello che avvenne dopo, quando sor Cesare lo fissò apertamente e:
“Che dici, Tommasì, devo esse geloso”, gli disse.
“E de cosa, sor Ce’? che tutti me palpano er culo, meno che voi?”, rispose il ragazzo sfacciatamente, andandogli vicino.
“Te piacerebbe si te lo toccassi?”, fece l’uomo con la gola asciutta.
“Si a voi piacerebbe de toccammelo…”, disse Tommasino con un filo di voce, andandogli ancora più vicino.
Erano alti pressoché uguale, per cui potevano guardarsi negli occhi agevolmente. Tommasino era stordito dall’odore dell’uomo, ancora più forte, via via che montava in lui l’eccitazione.
Sentendo la mano del padrone che si avvicinava esitante a sfiorarlo, Tommasino gli allungò una mano in mezzo alle gambe.
“Che pacco, che c’avete, a sor Ce’…”, mormorò.
A quel punto, l’uomo sembrò avere un istante di rinsavimento:
“Ma che stamo a fa’, eh Tommasì?”, disse.
“Seguimo la natura…”, fu la disarmante risposta del ragazzo.
“E allora seguimola pe’ davero!”, si arrese l’uomo.
E con queste parole, agguantò la chiappa di Tommasino, che guaì per il dolore, e si avventò a baciarlo. E prima ancora che Tommasino avesse il tempo di schiudere le labbra, già la lingua di sor Cesare gli rovistava nel cavo orale con una foga e una passione che neanche con la sòra Olimpia ai bei tempi che furono.
“Quanto sei dolce in bocca, Tommasì… - sospirò sor Cesare – me sembra d’avecce la lingua in un barattolo de miele… e invece è la bocca tua…”
“Voi invece siete amaro, sor Ce’…”
“E’ la vita che rende amari…”
“E allora, fate che v’addolcisco n’antro poco…
E ripresero a baciarsi, mentre sor Cesare pastrugnava le chiappe di Tommasino adesso con entrambe le mani.
“Quanti te l’hanno palpato sto bel culetto, Tommasì?”
“Tanti, a sor Ce’… ma solo voi ve lo state godendo.”
Intanto, il ragazzo era riuscito ad aprirgli i pantaloni e a infilargli una mano nella patta.
“Uhmm”, mugolò stringendo in pugno la mazza febbricitante, sotto le mutande umidicce e non solo di sudore.
“Nun immaginavo che te piacesse er cazzo, Tommasì…”
“Manco io… ma co’ voi è tutta n’antra cosa.”
“Come, Tommasì?”, anelò sor Cesare, che intanto era riuscito a calargli i pantaloni e gli stava pastrugnando a nudo le belle chiappotte.
“E’ come se fossimo in un firm, dove che io nun so’ io e voi non sete voi… ma invece è naturale e io so’ e voi sete voi…”
E qui si interruppe Tommasino, non tanto per la confusione del suo discorso, quanto per il brivido che lo percorse, quando un dito di sor Cesare scivolò nello spacco e gli pizzicò il buchetto.
“Cos’è che stavi cantando oggi? Er barcarolo va contro corente…”, gli bisbigliò all’orecchio sor Cesare.
“Si nun jo o sbatti in culo se risente…”
“Così?”, disse l’uomo spingendogli dentro il buchetto il dito asciutto.
“Ah…”, gemette Tommasino, sollevandosi sulla punta dei piedi.
“Che bella fighetta stretta…”, mormorò sor Cesare.
Quelle parole lascive furono benzina per la fregola del ragazzo, che con una mano gli strinse convulsamente la mazza dura, mentre con l’altro braccio gli si avvinghiava al collo e tornava a baciarlo con folle passione. Ma del resto, si sa: da giovani si hanno gli ormoni alle stelle e basta la carezza di un alito di vento, per farci venire le caldane.
Intanto, la gravità faceva il suo effetto e il dito ruvido di sor Cesare scivolava lentamente nel condotto, producendo nuove, quanto sconvolgenti sensazioni contro la delicata mucosa rettale. Quando fu tutto dentro, Tommasino non resse più:
“A sor Ce’, cos’aspettate?”, mugolò ormai del tutto fuori di testa.
Cosa aspettava? E cosa doveva aspettare? Quelle parole valsero a eliminare le sue ultime remore e sor Cesare, estratto il dito dal tenero pertugio, lo fece voltare e, spintolo ad appoggiarsi col petto sul tavolo ancora ingombro, gli allargò le natiche, sbirciò dove fosse il buco, ci poggiò sopra la punta untuosa del cazzo e spinse dentro. L’impatto del grosso uccello fu ben più devastante del semplice dito e Tommasino grugnì di dolore, mentre il suo buco veniva forzato a slargarsi oltremisura.
Ma per quanto guaisse e si dimenasse, sor Cesare non gli dava retta e continuava a spingere dentro. Il cuore gli batteva nel petto all’impazzata, una parte di lui si rendeva conto che stava facendo qualcosa che non avrebbe dovuto, ma il testosterone gli pompava ormai nel sangue e la sua unica urgenza era fottere… fottere quel culetto vergine… fotterlo e sborrarci dentro.
Quando si rese conto di aver compiuto l’intero percorso e si ritrovò con le palle premute contro il perineo di Tommasino, diede un paio di duri affondi per assestarsi meglio e finalmente si fermò per riprendere fiato, ma sempre tenendo il bacino fortemente premuto contro il culo del ragazzo.
“A Tommasì, - ansimò, allora, con un filo di voce, passandogli le braccia attraverso il petto per stringerlo a sé – la figa sarà pure bona, ma er culo tuo è ’no sballo! E chi s’ o immaginava…”
Quelle parole valsero a Tommasino a fargli passare del tutto il dolore, che del resto si era già andato attenuando, sostituito adesso da un languore che gli fece tremare un poco le gambe. Ma il piacere fece presto la sua comparsa, e soprattutto la gratificazione d’averci piantato nel culo il grosso uccello del suo padrone. Gratificazione e piacere, che si fecero incontenibili, quando sor Cesare prese a cavalcarlo con vigore.
“Te fotto er culo, Tommasì… te fotto er culo!”, cantilenava sor Cesare, spingendogli dentro e fuori l’enorme stantuffo.
“Oh,,, oh… oh… oh… oh…”, cantilenava di rimando il ragazzo ad ogni affondo.
E i loro gemiti e guaiti erano così rumorosi, che fu davvero un miracolo se non svegliarono la sòra Olimpia, al piano di sopra. E infine giunse il momento: la pressione del seme in ebollizione raggiunse una tale pressione nelle palle incordate del trattore, che l’uomo non riuscì più a resistere e con un:
“Ohhhhhhh…” di liberazione, si abbatté sulla schiena di Tommasino e cominciò a pompargli nell’intestino copiose bordate di sborra.
Il ragazzo sentiva distintamente ogni grumo di sperma correre lungo la grossa vena e scaraventarsi fuori, e questo lo mandò in tilt: perse del tutto il controllo e sborrò sotto il tavolo, su cui era piegato, con lunghe schizzate di sperma e di piscio.
“A sor Ce’, amo fatto un casino.”, disse mentre l’uomo gli sfilava dal culo il lungo uccello ormai frollo e se lo tamponava con alcuni strappi di scottex.
Sentendosi già in colpa per quanto era successo:
“E l’amo fatto sì, - rispose l’altro, equivocando – come è potuto succede? So’ proprio una bestia senza criterio a fa’ certe cose… Perdoname, Tommasì, io nun so cosa m’ha preso…”
Tommasino lo lasciò sproloquiare per un poco, poi:
“Calmateve, a sor Ce’. Io volevo di’ quello, - e gli mostrò la pozza di sborra e piscio che si era formata sotto il tavolo – ma mo pulisco, nun ve preoccupate. Quanto ar resto, che colpa c’avete? So’ stato io che v’ho stuzzicato.”
“Perché?”
“Perché c’avevo voglia e volevo che foste voi er primo... Ve voglio bene, a sor Ce’, sete stato come un padre pe’ me, anzi mejo d’un padre”
“Puro io te vojo bene, Tommasì, - rispose l’uomo, sorridendo – ma nun me risulta che li padri se scopeno li fiji.”
Tommasino fece spallucce:
“E che ce frega, sor Ce’? mica semo padre e fijo pe’ davero. A me è piaciuto e me sa tanto puro a voi. E si ce va d’arifallo, chi ce po’ di gnente? E nun ve preoccupate della sòra Olimpia: je vojo bene, nun farò mai gnente pe’ dalle ‘n dispiacere. Annateve a fa’ la doccia: ce penso io a pulì sto casino.”
Sor Cesare lo fissò a lungo, accennando lentamente di sì con la testa. Poi, sorridendo:
“Già, chi ce po’ di’ quarcosa? Te do na mano a pulì, Tommasì, e poi se famo la doccia assieme, te va?”
“Solo la doccia, sor Ce’?”
“Eh, vedemo…”









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