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Biancaneve ai Sette Nani - 1
di adad
26.10.2020 |
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"Si guardò stizzito: cos’è che gli mancava? cos’aveva più di lui quello sgorbio di Martino?
Spieghiamo come stanno le cose, prima di procedere oltre..."
1 – Il Delitto“Specchio, specchio delle mie brame, chi è il principe più bello del reame?”, chiese Valfrido, pavoneggiandosi seminudo davanti al grande specchio veneziano appeso alla parete.
“Non c’è trucco e non c’è inganno, - rispose lo specchio con voce profonda – è Martino il più bello del reame.”
Valfrido diventò livido dalla rabbia e afferrò un candelabro per scagliarlo con furia contro lo specchio, essendogli sembrato di cogliere anche una nota di scherno nella sua risposta; ma si ricordò in tempo quanto era costato acquistarlo e farlo venire dalla lontana Venezia: sicuramente la regina sua madre non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Si guardò stizzito: cos’è che gli mancava? cos’aveva più di lui quello sgorbio di Martino?
Spieghiamo come stanno le cose, prima di procedere oltre. Valfrido e Martino erano fratellastri e pressoché coetanei: Martino era figlio del re Alberto e della regina Evelina, che era morta dandolo alla luce. Allora, passato il periodo del lutto, il re si era risposato con la principessa Arabella e nove mesi dopo era nato Valfrido.
I due erano cresciuti assieme, ma non c’era nessun legame fra loro: Valfrido era chiaramente il prediletto della regina, che lo copriva di coccole e di regali, trascurando del tutto Martino, a cui il re non aveva la forza di assicurare la dovuta considerazione, succube com’era della tirannica moglie.
Crescendo, Valfrido era diventato sempre più prepotente e geloso del fratellastro, che continuava a bullizzare in tutti i modi, tanto da arrivare un giorno a trascinarlo nelle stalle e a violentarlo, mentre un mozzo lo teneva immobilizzato su una balla di fieno: violenza, che si era ripetuta nei giorni e nei mesi successivi, senza che il povero ragazzo trovasse modo di sottrarvisi, non avendo nessuno a cui ricorrere.
Passarono gli anni e, nonostante i soprusi, il principe Martino diventava sempre più bello, sembrava quasi che ogni offesa subita contribuisse ad accrescerne il fascino: a diciotto anni era diventato un giovane dal fisico aggraziato, i lineamenti regolari e le chiome di un biondo più luminoso dell’oro.
Anche Valfrido era un bellissimo giovane, ma la sua malvagità gli dava quella nota di durezza, che lo relegava sempre al secondo posto. Per quanto si curasse, depredando i balsami e i belletti della madre, il giudizio dello specchio era ogni volta invariato: “Martino è il più bello del reame!”
Non solo: quel maledetto Martino era anche il legittimo erede al trono, sarebbe diventato re alla morte del padre e lui sarebbe stato relegato per sempre in un posto di secondo piano.
Per non parlare del pericolo che una volta divenuto re, Martino ne approfittasse per vendicarsi. Allora? Non c’era alternativa: Martino doveva scomparire.
Presa questa decisione, Valfrido raggiunse la stalla dei cavalli e cercò il mozzo Carlotto, suo complice degli abusi e delle angherie nei confronti di Martino.
“Ho bisogno di te.”, gli disse, appena lo ebbe trovato.
“Cosa posso fare per voi, Altezza?”, chiese rispettosamente quello, dopo aver deposto il forcone con cui stava raccogliendo il fieno per le mangiatoie.
“Tu mi sei fedele?”
“Come potete dubitarne?”, rispose Carlotto e stava per aggiungere ‘con tutto quello che abbiamo combinato assieme’, ma si fermò in tempo e rimase in attesa.
“Il mio fratellastro…”, cominciò Valfrido.
“Il principe Martino?”
“Sì”
“Volete che gli diamo un’altra lezione?”, fece il mozzo, ma senza entusiasmo stavolta.
“Una lezione definitiva.”, disse Valfrido con una luce crudele negli occhi.
“Che volete dire?”
“Devi occuparti di lui.”
“Cosa intendete?”
“Devi ucciderlo!”
“Ucciderlo? - esclamò Carlotto, sbarrando gli occhi, mentre un sudore freddo gli si spargeva
sulla pelle – Ma… Altezza…”
“Martino deve scomparire. Fallo! E mi ricorderò sempre della tua fedeltà.”, e detto questo, girò sui tacchi e sparì.
Carlotto rimase senza fiato. Un conto era abusare di Martino, un altro era ucciderlo! Un tremito incontrollabile lo prese, non poteva farlo… non poteva uccidere un uomo, un principe… l’erede al trono! Valfrido non poteva chiedergli questo. Ma non glielo stava chiedendo… glielo stava ordinando! Uccidere Martino… No, non poteva farlo… non poteva uccidere il ragazzo che… e in quel momento Carlotto si rese conto del sentimento che aveva maturato pur fra tante angherie… si rese conto di provare compassione per quel povero principe oltraggiato, si rese conto di vergognarsi
per quello che aveva contribuito a fargli. Il rimorso gli serrò il petto, gli tolse quasi il respiro. Dovette faticare per recuperare la calma. Allora si mosse per raggiungere Valfrido e rispondergli con un secco NO!, incurante di cosa sarebbe potuto succedergli.
Ma dopo due passi si bloccò: se lui avesse rifiutato, quello si sarebbe rivolto ad un altro. E un altro, un sicario prezzolato, non avrebbe avuto tanti riguardi. No, doveva avvertire Martino, doveva salvarlo: era questa la sua espiazione.
Sgattaiolò negli appartamenti reali, riuscì a raggiungere le stanze di Martino, senza essere scorto da nessuna delle guardie, e lo trovò accosto a una finestra, che guardava fuori.
Carlotto aspettò in silenzio sulla soglia, in attesa che l’altro si accorgesse di lui, ma Martino era troppo preso dai suoi pensieri. Allora:
“Vostra Altezza…”, disse a voce bassa.
Martino si voltò e appena lo riconobbe fece un passo indietro, addossandosi ancor più alla finestra.
“Tu? - fece, sbiancando in volto - cosa volete adesso tu e il tuo padrone?”
“Vostra Altezza, - balbettò Carlotto – siete in pericolo…”
“Sono in pericolo? E vieni a dirmelo proprio tu?”
C’era tanta amarezza in quelle parole, che Carlotto non resse, cadde in ginocchio e con voce accorata, gli occhi lucidi:
“Riconosco di avervi fatto del male, Altezza, tanto male e vi chiedo perdono, - disse, protendendo verso di lui le mani giunte – ma siete in pericolo, sono qui per avvertirvi, dovete fuggire, dovete mettervi in salvo.”
“Ma che stai dicendo, di che pericolo parli?”
“Vostro fratello vuole farvi uccidere!”, disse Carlotto tutto d’un fiato.
Martino lo fissò in silenzio per un pezzo.
“Come lo sai?”, chiese alla fine.
“Lo so… perché ha incaricato me di farlo!”
“Sei qui per uccidermi, allora?”
“No!...Vi prego, Altezza… vostro fratello è stato cattivo con voi e io lo sono stato più di lui… ma questo no, non voglio essere complice della vostra morte.”
Qualcosa in quelle parole fece breccia nella diffidenza del principe.
“E perché dovrei crederti?”
“Perché vi chiedo perdono... - disse l’altro sommessamente – perché vi giuro la mia fedeltà…”
Sia pure ancora esitante, Martino gli si avvicinò e gli porse la mano. Carlotto, tuttora in ginocchio la prese e gliela baciò con fervore.
“Vi consacro la mia vita, principe.”, disse.
“Cosa pensi di fare?”, gli chiese allora Martino.
“Ascoltate…”, disse Carlotto, alzandosi in piedi.
***
La notte era scesa da un pezzo sul castello reale. Da un pezzo tutti si erano ritirati nei propri alloggi e il silenzio regnava sovrano. D’un tratto, un’ombra scivolò lungo le pareti, salì le scale, raggiunse le stanze del principe Martino e grattò leggermente alla porta. Subito gli fu aperto e l’ombra sgattaiolò dentro.
“Siete pronto, Altezza?”
“Sì. Cosa devo prendere?”
“Niente. Tutto deve restare cos’è adesso. Deve sembrare che siete scomparso misteriosamente… Nessuno deve sospettare che siete fuggito e meno di tutti vostro fratello. Ricordate che devo uccidervi… per finta, - aggiunse con un timido sorriso, notando il sussulto di Martino – non temete, vi porterò in salvo. Ve lo giuro sulla mia vita.”
Senza neanche spegnere il lume nella stanza, i due scivolarono fuori e scomparvero ben presto nelle tenebre fitte della notte. Più esperto a muoversi nel buio, Carlotto procedeva veloce e presto raggiunsero il limite della foresta, nei cui alberi fitti lo stalliere si inoltrò con sicurezza, seguito dal principe che procedeva esitante nel passo e dubbioso nel cuore. Carlotto gli aveva giurato fedeltà, certo, ma chi gli assicurava che fosse davvero sincero?
“Più in fretta… più in fretta…”, quasi lo implorava Carlotto, che si inoltrava nel folto della foresta senza voltarsi indietro.
Finalmente raggiunsero il posto che lo stalliere si era prefisso.
“Altezza, - gli disse allora – qui dobbiamo separarci. Proseguite per questo sentiero, uscirete dal bosco lontano dal castello e lì dovrete fare da solo… ma, per amor del cielo, non fatevi scoprire, non fate capire chi siete o sarete perduto.”
“Grazie…”, mormorò Martino.
“Aspettate. - continuò Carlotto, togliendo un grosso involto dalla tracolla di tela di sacco – Spogliatevi e mettete questo. - e gli porse un vestito da donna – così nessuno vi riconoscerà.”
Poi, raccolse e fece a pezzi i vestiti, via via che Martino se li toglieva, spargendoli qua e là; solo la camicia la trapassò un paio di volte col suo coltello, ci avvolse un cuore sanguinante, il cuore di un maiale, che aveva sottratto dalle cucine, e la ripose nella tracolla. Fatto questo:
“Adesso andate, principe, e che il cielo vi aiuti. Io devo tornare a finire il mio lavoro.”
“Non lo dimenticherò.”, disse Martino, afferrandogli la mano e stringendola forte.
“Sì… - mormorò Carlotto con voce rotta – Andate adesso.”, e si voltò in fretta, scomparendo alla vista.
***
L’alba cominciava a schiarire l’orizzonte, quando Carlotto fu raggiunto nelle stalle da Valfrido.
“Allora?”, gli chiese con ansia.
“E’ fatta.”, rispose quello e trasse dalla tracolla la camicia fradicia di sangue, che svolse, mostrandogli il cuore.
“E’ suo?”, fece Valfrido, afferrandolo con mano rapace.
“Sì, gliel’ho estratto, dopo averlo trafitto.”, e gli mostrò la camicia bucata dalle coltellate.
“E… di lui… che ne hai fatto?”
“L’ho gettato in un dirupo. Ci penseranno i lupi.”
Una luce feroce si accese negli occhi del principe.
“Bene… - fece, stringendo in pugno il povero cuore – E tu meriti un premio!”, aggiunse allo stalliere.
In preda, quindi, ad un’eccitazione convulsa, gettato a terra il cuore, lo afferrò per le braccia e lo
costrinse a voltarsi; poi lo piegò su una balla di fieno e gli strattonò giù le braghe, scoprendogli le natiche.
“Adesso tocca a te prendere il suo posto... - disse, puntandogli il cazzo eretto sul buco contratto e spingendoglielo dentro con un colpo secco – E questo è il tuo premio…”, grugnì.
Carlotto urlò e si dibatté nel tentativo di sottrarsi all’inevitabile, ma l’altro lo tenne fermo saldamente, cominciando a zagagliarlo, prima ancora di averlo penetrato per intero, tanta era la foga della sua eccitazione.
“Goditi il cazzo del tuo principe… - ansimava, sbattendoglielo con foga tutto dentro – goditelo, fottuto stalliere!… goditelo… finché te lo do… Goditi l’onore che ti sto facendo!”, e pistonava sempre più forte, via via che il piacere cresceva e l’orgasmo maturava.
Dopo la resistenza iniziale, Carlotto ormai subiva passivamente quell’ignominia: era la giusta punizione per essere stato il complice di quel mostro… chi di spada ferisce, di spada perisce…
Importante è che Martino fosse in salvo, questo solo contava, questo solo gli dava conforto.
E poi tutto finì: con un grugnito animalesco, Valfrido diede un ultimo affondo e immediatamente
dal suo cazzo scaturì una raffica di fiotti corposi, che il poveretto, brutalizzato, non avvertì neanche: si rese conto soltanto del fatto che bruscamente l’oggetto infisso nel suo retto veniva tirato via, lasciandogli tutta la parte indolenzita, che lui stesso veniva rigirato, che Valfrido lo sovrastava e con un ghigno satanico gli strusciava sul volto il membro viscido di sperma e di umori, cercando di spingerglielo in bocca.
Lui serrò le labbra, girando di lato la testa, e per fortuna quel gioco perverso stancò in fretta il suo tormentatore, che dopo un po’ si tirò su le braghe, raccolse il cuore e se ne andò fischiettando soddisfatto.
Appena lo vide uscire dalla porta della stalla, Carlotto non perse tempo: si pulì alla meglio con una manciata di fieno, si ricompose e, raccolti in un fagotto i suoi stracci, fuggì dal castello, determinato a ritrovare il suo principe e ad aiutarlo a tutti i costi in quella vendetta, che adesso era anche sua.
E fu una mossa saggia, perché appena rientrato nella sua camera, tuttora indeciso se gettare quel cuore in pasto ai cani o farselo cucinare coi peperoni, Valfrido pensò bene di prendersi la sua rivincita: si piazzò tutto tronfio davanti allo specchio e:
“Specchio, specchio delle mie brame, - chiese – chi è adesso il più bello del reame?”
Ma la risposta non fu quella che si attendeva, perché dopo un momento di esitazione:
“Non c’è trucco e non c’è inganno, - rispose lo specchio – è Martino il più bello del reame.”
Valfrido rimase di stucco: diventò gelido come la pietra, livido in volto, con gli occhi gli schizzavano dalle orbite:
“NOOOOOOOOO!!!!! - urlò, schiumando rabbia – Martino è morto! I lupi se lo stanno divorando proprio adesso!”
Lo specchio sembrò scuotere la testa.
“Invano hai ordito le tue trame, - rispose quasi con scherno – è Martino il più bello del reame.”
Allora, il principe capì di essere stato raggirato, afferrò la spada e si lanciò fuori alla ricerca di Carlotto, gridando:
“Dove sei, maledetto? Io t’ammazzo! T’ammazzo!”
Ma ogni ricerca fu vana: Carlotto, come sappiamo, non aveva perso tempo a mettere la maggiore distanza possibile fra sé e il vendicativo Valfrido, e infatti non fu possibile scoprirne traccia né quel giorno, né gli altri successivi.
(continua)
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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