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Gay & Bisex

Rapporti condominiali -1


di adad
11.01.2019    |    25.543    |    6 9.6
"Abitavo in quel caseggiato da un paio d’anni e alcune conoscenze le avevo fatte, ma erano conoscenze da buongiorno e buonasera sulle scale, tutt’al più..."

Abitavo in quel caseggiato da un paio d’anni e alcune conoscenze le avevo fatte, ma erano conoscenze da buongiorno e buonasera sulle scale, tutt’al più qualche osservazione sul tempo o sui problemi condominiali. Amicizie reali, come in tutti i grossi condomini, era difficile farne… non parliamo poi di “quel” tipo di amicizia: neanche a sognarsela!
La gran parte degli inquilini, condomini o affittuari che fossero, erano persone di una certa età e quindi al di là di ogni tentazione, parlo della popolazione maschile, ovvio, per la quale confesso di avere una certa predilezione. Ad essere sinceri, però, c’erano anche dei giovani mariti, dotati di notevoli qualità, come pure dei giovani figli di anziane coppie, pur’essi dotati di notevoli qualità, oltre che della fresca avvenenza della gioventù, ma tutti con mogli o fidanzate al seguito e quindi lontani anni luce da qualsiasi possibilità di approccio… o almeno così credevo.
Con un paio di giovani mariti, comunque, che stimolavano particolarmente le mie libidinose fantasie, mi ero premurato di sfoderare un sorriso particolarmente caloroso per accompagnare il buongiorno sulle scale: “buongiorno” che si era trasformato presto in un cordiale “salve” e quindi in un cameratesco “ciao, come va?”
Domanda idiota, d’accordo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare per far breccia nel muro dell’indifferenza: non potevo mica andar lì e dirgli papale papale: “Ehilà, ma lo sai che ti farei volentieri una pompa?” Quanto meno, non sarebbe stato elegante, per non parlare del vaffanculo, stronzo che avrei potuto facilmente rimediare, se non di peggio!
Sapevano di me? Non lo so, ma vedendo un uomo di mezz’età vivere da solo, senza mai l’ombra di una donna fra i piedi, a meno che non venissero tutti dal deserto dei tartari, presumo che qualcosa sospettassero. Ma la cosa mi lasciava del tutto indifferente.
Uno di questi giovani mariti era Andrea, un frittolone moro, ricciuto, che abitava qualche piano sopra di me, con moglie e figli a carico. Aveva fra i trentacinque e i quarant’anni, un bel viso aperto e pronto al sorriso, un’aria simpatica e un fisico tonico, per quanto si poteva notare di lui, sotto i vestiti abbastanza sformati che indossava di solito.
Non era bellissimo, ma io lo trovavo terribilmente seducente e già solo incrociarlo sulle scale mi dava delle incredibili sensazioni di voluttà, vale a dire un formicolio alle palle e un senso di languore al buco del culo. Quando ci incontravamo da qualche parte, era sempre un caldo sorriso ad accompagnare il nostro reciproco ciao; e non mancavano le volte in cui, dopo qualche secondo che ci eravamo incrociati, mi ricordavo all’improvviso di dover tornare indietro a prendere qualcosa, per il solo gusto di godermi la visione del suo culo polposo, mentre lo seguivo a qualche metro di distanza.
Una mattina piuttosto fredda di dicembre, dovetti scendere in cantina a portare delle robe vecchie, che avevo tolto dalla circolazione. Mi intabarrai con un maglione e scesi nel sotterraneo gelido. Uscendo dal mio box, vidi più in là Andrea che stava entrando nel suo: indossava una maglietta con le maniche corte e dei pantaloni sformati di felpa grigia.
Ora, se c’è una cosa che mi fa schizzare l’ormone alle stelle è vedere un maschio piacente con addosso dei pantaloni sformati di felpa grigia! Non so che razza di associazioni psico-erotiche mi si formano in testa e non mi interessa saperlo, ma dire che mi sento un groppo allo stomaco e che una girandola di nebbia mi offusca la vista non rende propriamente l’idea.
La prima cosa che mi viene in mente è: porterà le mutande, sotto?, e il pensiero che possa non indossarle, che il cazzo gli ciondoli scioltamente sotto quei pantaloni sformati mi dà a dir poco le vertigini.
Andrea sentì il rumore della mia chiave e si voltò. Ci salutammo con un ciao, accompagnato dal solito radioso sorriso e mi avvicinai col cuore che mi martellava.
“Ascolta, - gli dissi, cercando di caricare la mia voce del tono più scherzoso possibile – va bene che sei giovane – stavo per aggiungere e bello, ma riuscii a correggermi in tempo – e forte, ma non ti sembra di esagerare un po’?”, alludendo alla sua tenuta pressoché estiva.
“Che ti devo dire? – rispose lui – lo sai che su ho un caldo del diavolo!”
Mentre noi comuni mortali, infatti, ci lamentavamo spesso con l’amministratore di non avere abbastanza caldo negli appartamenti, lui si lamentava di averne troppo nel suo, al punto da dover tenere spesso le finestre aperte anche in pieno inverno.
“Ma non è per caso che sei tu perennemente in calore?”, mi scappò, calcando forse un po’ troppo il tu.
“Mettiamola pure così!”, scoppiò a ridere lui.
“Questo è un vero problema, allora.”, risi a mia volta.
Poi, francamente, non saprei dire con esattezza cosa sia successo, ci sono dei blackout nella mia memoria, e credo che sia capitato ad ognuno di noi di non aver consapevolezza di cosa sia avvenuto in certi momenti di particolare intensità emotiva. Ricordo che di punto in bianco mi ritrovai all’interno del suo box e lo stavo fissando negli occhi, seriamente stavolta, mentre lui chiudeva la porta di lamiera. Quindi si avvicinò a me e sentii il suo odore, un odore misto di tabacco e di colonia. Vidi la mia destra allungarsi al suo inguine… stringere il cotone morbido dei pantaloni… Ricordo che sentii l’involto del suo pacco: porta le mutande, pensai.
Andrea non disse niente; da questo momento i miei ricordi si fanno più chiari: proseguii la mia esplorazione, fino a individuare l’uccello che mi parve consistente. Lo palpai con più insistenza: ancora nessuna reazione da parte sua, che continuava a fissarmi con un’espressione intenta sul volto, le braccia penzolanti sui fianchi e il respiro leggermente più pesante.
Allora, senza neanche chiedermi cosa stessi facendo, mi inginocchiai sul pavimento sudicio, gli afferrai i pantaloni per l’elastico della cintura e glieli calai lentamente fino a mezza coscia. Indossava un paio di slip bianchi, sformati e stazzonati pure loro, e non del tutto puliti: probabilmente li portava dal giorno prima e ci aveva dormito tutta la notte!
I coglioni riempivano la sacca in basso e il cazzo semiduro gli ricadeva di traverso. Mi accostai a premere le labbra sul rigonfio morbido e caldo. L’odore del suo inguine era forte aveva un che di ferino, che mi diede i brividi. D’impulso, gli scostai di lato gli slip e cavai fuori tutto l’armamentario.
I coglioni gli ricaddero in basso pesanti, mentre il cazzo già si teneva a mezza altezza. Aveva il prepuzio tirato in su e la pelle slabbrata formava sulla cima come un pozzetto, da cui un filo traslucido di siero cominciò a colare verso terra.
Senza pensarci, mi protesi a leccare quel nettare prelibato, indugiando con la punta della lingua nella fossetta bagnata. Andrea respirò più profondamente. Allora glielo presi in mano e, lentamente, tirai giù il prepuzio, scoprendo il grosso glande d’un tenero rosato interamente cosparso di sugo virile.
Lo fissai un istante, inalandone l’aroma intenso, poi chiusi gli occhi e lo ingoiai con passione… con voluttà… Il sapore era pungente, me ne sentii pizzicare la lingua, ma lungi dal disturbarmi la cosa mi inebriò e andai avanti a leccare e succhiare quel meraviglioso fungo, passando la lingua sotto la cresta, scavando nel taglietto, picchiettando sul filetto…
Finalmente, Andrea si lasciò sfuggire un gemito, poi retrocesse, appoggiandosi con la schiena alla parete. Io ero rimasto inginocchiato lì, lontano quasi metro da lui. Lui mi fissò un momento con un’aria mezzo stralunata, respirando attraverso le labbra dischiuse, non si rendeva conto neppure lui di cosa gli stava succedendo, poi si prese il cazzo con due dita e lo puntò verso di me, come invitandomi a raggiungerlo. Al che, feci in ginocchio quel paio di passi e gli fui di nuovo davanti, fino a sfiorarne con le labbra la punta bagnata.
Restammo un istante immobili, poi lui spinse leggermente in avanti col bacino e mi fece scivolare il glande fra le labbra dischiuse. Era fatta! Stava accettando il mio omaggio. A questo punto, con la sinistra gli presi a coppa i coglioni caldissimi e con la destra gli agguantai l’uccello alla base, masturbandolo piano, mentre con la bocca riprendevo a lavorargli golosamente e sapientemente la cappella. Non durò a lungo.
Ben presto sentii le palle iniziare a contrarglisi e il glande a farglisi più duro; poi, con un rauco sospiro Andrea si abbandonò contro la parete, mentre con uno scatto il suo cazzo si liberava, riversandomi fra lingua e palato quattro o cinque fiotti di seme caldo e denso. Lo assaporai, prima di ingoiarlo: era dolciastro, con un leggero retrogusto amarognolo, giusto come piace a me.
Ora, bisogna dire che se c’è una cosa che manda fuori di testa un maschio, soprattutto etero, è vedere un altro che riceve in bocca il suo sperma e lo beve: sul momento lo imbarazza, è vero, lo sconvolge, magari lo disgusta, ma successivamente lo eccita da morire e non vede l’ora di rifarlo. Anche per questo ingoiai con gusto tutta la sua produzione, indugiando poi a leccargli l’uccello in punta di lingua a mano a mano che gli si smollava, finché glielo lasciai andare ormai mingherlino, con un’ultima tenera slinguata nel taglietto bagnato.
E adesso il momento più delicato: il maschio ha scaricato la sua libidine, riacquista in tutto o in parte la sua lucidità e non sai mai che reazione aspettarti, col senso di colpa che preme per accalappiarselo, soprattutto se è la sua prima volta, o col dubbio che lo prende di non essere più normale, dopo che si è lasciato tirare una pompa da un altro uomo. La mia tecnica in questi casi è sempre quella di sdrammatizzare, di far finta di niente, come se in realtà non fosse successo nulla di particolare.
Così, mi rialzai con calma e col mio migliore sorriso:
“Mi sa che adesso dovrai andare a metterti un maglione pure tu!”, gli feci, allontanandomi ostentatamente verso la porta, per fargli capire che da parte mia non aveva niente da temere.
La via d’uscita che gli offrivo, funzionò: Andrea ridacchiò nervosamente, rimettendosi a posto in fretta.
“Scusa, devo andare.”, disse senza guardarmi.
“Certo.”, feci io con tono tranquillo e uscii.
Lui mi venne dietro, chiuse a chiave la porta, mi lanciò un frettoloso ciao e prese a salire di corsa le scale. Lasciai che si allontanasse e chiamai l’ascensore: sapevo che gli stava precipitando addosso tutta l’enormità della trasgressione a cui si era lasciato andare, sapevo che aveva bisogno di stare da solo, di metabolizzare quanto era successo.
Sperai per lui che riuscisse a trovare abbastanza lucidità per dipanare la matassa senza farne un problema irrisolvibile.

Passarono le settimane e di Andrea nessuna notizia, ma d’altra parte sarebbe stato idiota da parte mia aspettarmi che si facesse vivo. Probabilmente era rimasto più sconvolto di quanto immaginassi. Arrivò Natale e l’inverno ormai imperversava in tutta la sua crudezza, al punto che freddoloso come sono uscivo di casa solo per questioni di vita o di morte.

(continua)
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