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Racconto di Natale (2024)

19.12.2024 |
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"Cristo! Rimasi un momento basito: era nudo e si stava asciugando i capelli con il phon davanti allo specchio..."
Il sole era già tramontato in quella Vigilia di Natale. Sbirciai fuori dalla finestra: il buio stava calando in fretta, ma io mi guardai attorno soddisfatto: l’albero lampeggiava le sue lucine multicolori in un angolo dell’ampio soggiorno e una discreta montagnola di pacchi dono, da distribuire ai pochi amici, che si fossero degnati di farmi visita i giorni successivi, si ammucchiava sotto i rami scintillanti. In cucina era tutto pronto per il cenone, mancavano solo gli ultimi ritocchi, quelli da portare a termine, mentre gli ospiti chiacchierano e sorseggiano aperitivi, in attesa del sospirato “Se volete accomodarvi…”. Solo che io non aspettavo nessun ospite per la serata, cioè…Allora, mi spiego: fin da quando ero andato a vivere per conto mio, lasciando la casa paterna, avevo preso l’abitudine, la Vigilia di Natale, di invitare a cena qualcuno meno fortunato di me. In parole povere, giravo per la città, finché non incontravo un senzatetto che attirava la mia attenzione; allora, mi fermavo, lo caricavo in macchina, lo portavo a casa, lo ristoravo e poi lo riaccompagnavo alla sua postazione non senza una buona provvista di vivande e abiti puliti.
Qualcuno potrebbe dire che sono un filantropo, ma non è così: forse cercavo solo di sentirmi egoisticamente meno privilegiato di tanti altri, restituendo per una sera qualcosa di quanto la fortuna mi ha concesso. O forse, altrettanto egoisticamente, volevo sentirmi meno solo in quella serata speciale.
Comunque sia, pensatela come volete, ché non mi interessa.
Sistemai, dunque, le ultime cose, poi presi le chiavi della macchina e uscii per iniziare la ricerca. Girai a lungo per le strade dove sapevo che stazionavano i senzatetto, ma nessuno attirò in particolare la mia attenzione.
Avevo deciso di proseguire ancora un po’ e poi prendere su il primo che mi capitava, quando l’occhio mi cadde su un tipo rannicchiato sotto un cumulo di cartoni. Non saprei dire cosa mi spinse a fermarmi: scesi dalla macchina e mi avvicinai.
Appena lui mi scorse, si accucciò ancora di più sotto il cumulo di cartoni, forse temendo che volessi fargli qualcosa: erano notizie quasi giornaliere le violenze perpetrate ai danni di qualche barbone da parte di teppisti scapestrati.
Indovinando la sua paura, mi fermai a tre passi di distanza.
“Tranquillo, - gli dissi con voce calma – non voglio farti del male.”
Evidentemente, non si fidò e si tirò ancora di più sotto la montagna di cartoni.
Allora, mi avvicinai di un altro passo e mi accosciai:
“Non aver paura.”, gli dissi in tono rassicurante.
“Cosa vuoi?”, mi chiese dopo un po’ con voce tremula.
Non riuscivo a capire se era giovane o vecchio, ma del resto poco importava. Continuai a parlargli pacatamente, cercando di convincerlo che poteva fidarsi di me; e a poco a poco avvertii la sua diffidenza attenuarsi; finché, al mio ennesimo invito e all’assicurazione che lo avrei riaccompagnato lì, cominciò a scivolar fuori dalla sua capanna di cartoni. Una volta in piedi, notai che era alto pressappoco come me, sul metro e ottanta; era avvolto in un paio di coperte sdrucite e i suoi lineamenti erano indefinibili tra un berrettaccio di lana calato fin sopra gli occhi e un’arruffata barbetta che gli copriva le guance. La cosa più rilevante, però, era il tanfo ammorbante che si sprigionava da lui. Arricciai il naso, quando si avvicinò, lui se ne accorse e fece per tornare indietro. Ma io lo presi per un braccio e lo trattenni.
“Senti, - gli dissi con dolcezza – perché non lasci qui quelle coperte, non ti serviranno.”
Allora, lui se le sviluppò di dosso, gettandole sotto la capanna di cartoni, e mi seguì verso la macchina, rimasta accesa. Si accoccolò sulla sponda del sedile.
“La cintura, per favore.”, dissi, inserendo la marcia.
Lui si allacciò la cintura di sicurezza, mentre un tanfo atroce riempiva l’abitacolo, un tanfo reso ancora più pesante dall’aria calda che usciva dai bocchettoni.
Cercando di respirare in punta di naso:
“Come ti chiami?”, gli chiesi.
“Silvio”, rispose lui, dopo un po’.
“Piacere, io sono Roberto.”, e allungai la mano verso di lui.
Silvio me le strinse: cominciava a fidarsi di me e la sua stretta era solida e forte.
Cercai di avviare un minimo di conversazione, durante il percorso verso casa, tanto più che il mio naso si era andato abituando al suo terribile fetore; ma lui rispondeva a monosillabi, così, lasciai perdere.
“Eccoci a casa.”, dissi, parcheggiando davanti al mio caseggiato.
Scendemmo e ci avviammo al portone. Sentii che si faceva più esitante ad ogni passo.
“Coraggio”, lo esortai, prendendolo per un braccio.
Quando entrammo nell’appartamento, il suo imbarazzo si fece ancora maggiore, come se temesse di contaminare un luogo così pulito con la sporcizia che si portava dietro. Si fermò esitante sulla soglia, guardandosi attorno:
“Senti, - fece – forse è meglio se mi riporti…”
“Non aver paura, - dissi, comprendendo il motivo della sua esitazione – niente che non si possa risolvere con una buona doccia. Vieni.”
Lo guidai verso il bagno.
“È tutto tuo, - continuai, aprendogli la porta – fai pure con calma, io intanto preparo tavola. I tuoi vestiti ammucchiali da qualche parte, dopo ti porto qualcosa da mettere, d’accordo? Fai con calma e goditi una bella doccia bollente. Lì trovi sapone, sciampo e un telo pulito. Fa come se fossi a casa tua.”
Silvio mi lanciò un’occhiata indefinibile. Mi accorsi subito della gaffe.
“Oh, scusami, - feci – volevo solo dirti di non fare complimenti.”
Detto questo, uscii, chiudendomi la porta del bagno alle spalle. All’improvviso, provai una gran pena per lui: era giovane, chissà che razza di storia doveva avere alle spalle per ridursi a fare quella vita, e insieme sentii il bisogno di rendergli davvero memorabile quella serata.
Andai in camera, presi della biancheria pulita, una morbida tuta di felpa, un paio di ciabatte e feci per portarglieli, ma quando sentii lo scroscio della doccia, preferii non disturbarlo: che non pensasse che lo stavo controllando. Così, poggiai
il tutto su una sedia e andai in cucina a ultimare i preparativi. Quando la doccia tacque, aspettai un po’, poi presi il pacco dei vestiti e, senza pensarci, aprii la porta del bagno senza bussare. Cristo! Rimasi un momento basito: era nudo e si stava asciugando i capelli con il phon davanti allo specchio. Il suo corpo era asciutto, il sesso molle gli penzolava davanti lungo e carnoso, il culo era tondo, perfetto: sembrava appena uscito da una palestra, anziché da una baracca di cartoni lungo la strada.
Si voltò verso di me, sentendomi entrare e mi sorrise. Sembrava trasfigurato, i capelli erano una nuvola di riccioli castani e una rada barbetta gli contornava deliziosamente il volto dai lineamenti regolari. Fossimo stati nei tempi antichi, avrei detto che un dio benevolo aveva trasfuso in lui tutta la sua grazia.
“Scusa, - balbettai – ti ho portato qualcosa da mettere… Non ho pensato di bussare… perdonami.”
“Non ti preoccupare, - disse lui con voce adesso tranquilla - non mi vergogno a farmi vedere nudo. Da te, poi…”
Poggiai i vestiti sopra uno sgabelletto e uscii. Avevo il cuore che mi batteva all’impazzata. Che trasformazione! Mi accorsi di tremare tutto dalla testa ai piedi, mentre mi risuonavano nella mente quelle strane parole: da te, poi… Cosa aveva voluto dire? Tirai due profondi respiri, cercando di calmarmi, ma sapevo che sarebbe stata una vera impresa restare indifferente davanti ad un ragazzo rivelatosi tutto d’un tratto così conturbante.
Cincischiai un po’ attorno alla tavola, fingendo di ritoccare questa posata o quel bicchiere, tanto per darmi una calmata, finché lo sentii uscire dal bagno. Allora mi voltai e non riuscii a reprimere un “Wow” di sincera ammirazione. La tuta di un caldo color nocciola gli stava a pennello e sembrava rendergli il volto ancora più luminoso.
Lui sorrise, evidentemente consapevole della sua bellezza, anche se doveva aver dimenticato da un pezzo il fascino che emanava; infatti, arrossì leggermente, mentre chinava gli occhi, quasi vergognandosi.
Cominciai a servire la cena e fui contento di vedere con quanto appetito mangiasse: chissà da quanto tempo non faceva un pasto decente. Chiacchierammo, anche, del più e del meno, ma stetti ben attento a non fargli domande personali: tutto volevo, fuorché metterlo a disagio. E poi giunse il momento che temevo.
“È tardi, - disse d’un tratto con voce atona – forse è meglio che mi riporti… Non voglio rubarti altro tempo. Ti ringrazio molto della cena e… tutto il resto.”, e fece per alzarsi.
All’improvviso sentii crollarmi il mondo sotto i piedi.
“No, aspetta, - dissi con impeto – non vorrai tornare lì fuori al freddo. Fermati qui a dormire… Il divano in soggiorno è un letto molto comodo. Fermati, dai. Domani è Natale e non credo che tu debba andare da qualche parte.”
Parlavo a vanvera, ma l’idea di vederlo andar via, di vederlo tornare al gelo dei suoi cartoni mi torceva il cuore.
Silvio si fermò esitante: la prospettiva doveva attirarlo molto, ma era chiaramente
incerto, forse timoroso di disturbare troppo.
“Senti, - fece – sei davvero generoso, ma non sai chi sono…”
“Quante storie, - tagliai corto – chi dovresti mai essere? Vieni.”
Lo presi per un braccio e lo guidai in soggiorno.
“Qui starai benissimo.”, gli dissi indicandogli l’ampio divano e prendendogli da un cassettone un cuscino e un paio di plaid.
“Grazie, - disse lui – sei davvero un angelo.”
“Sciocchezze. – feci io, spegnendo le lucine dell’albero – Il bagno sai dov’è e se hai bisogno di qualcosa, la mia camera è di là.”
Lo lasciai, rassettai sommariamente la cucina e me ne andai a letto pure io: ormai era passata mezzanotte, bisognava lasciare campo libero a Babbo Natale.
Cercai di leggere un po’ per conciliarmi il sonno, ma il pensiero della magnifica creatura, che dormiva in soggiorno, non mi dava pace. L’immagine del suo cazzo carnoso, del suo culo perfetto, del suo fisico asciutto continuavano a vorticarmi nella testa e… non solo. Ok, ero eccitato come una bestia; pensai di farmi una sega, ma mi sembrò quasi un sacrilegio.
Ero perso in questo tornado di pensieri lussuriosi, quando sentii schiudersi la porta e un’ombra delinearsi nello spiraglio di chiarore che veniva dal soggiorno. Un brivido gelato mi corse lungo la schiena, mentre mi affrettavo ad accendere l’abat-jour sul comodino.
“Perdonami, - disse Silvio, facendo capolino dalla porta socchiusa – non volevo spaventarti.”
“Hai bisogno di qualcosa?”
“No”, fece lui, entrando.
Era in maglietta e mutande.
“Volevo chiederti, - continuò esitante – se posso stare un po’ con te… È così triste dormire da soli…”
Ebbi un tuffo al cuore.
“Ma certo, - dissi, tirandomi di lato – in questo letto c’è posto per due.”
Non se lo fece ripetere: si infilò sotto le coperte e mi si rannicchiò vicino tremando, non so se per il freddo o l’emozione. Lo abbracciai per dargli conforto e lui mi si fece ancora più vicino, lasciando che lo stringessi a me. Francamente, ero un po’ imbarazzato, non sapendo a cosa tendesse tutto questo.
“Che bello… - mormorò – come si sta bene con un amico a fianco…”
Non dissi niente, limitandomi a stringerlo ancora più forte, per dargli conforto.
“Perché non mi baci?”, sussurrò poi a un tratto.
“Cosa?”
“Lo so che ti piaccio, - continuò – me ne sono accorto da come mi hai guardato in bagno. Baciami…”, e accostò le sue labbra alle mie.
Come potevo resistere? Quando scivolai nella sua bocca, fu come precipitare in un abisso di voluttà. Mai, lo giuro, mi ero sentito così coinvolto, baciando un altro ragazzo. La sua lingua si avvinghiò subito alla mia, guidandola alla scoperta di un mondo di dolcezze inaspettate.
E mentre le nostre lingue giocavano nella bocca or dell’uno, or dell’altro, mentre i
nostri mugolii si confondevano, le mani si rincorrevano sui nostri corpi premuti,
inebriandosi al calore della pelle nuda.
Poi non ressi più, mi staccai da lui, gettai da un lato le coperte, gli tirai su la maglietta e mi avventai sul suo corpo, leccando e mordicchiandogli i minuscoli capezzoli di granito, spingendomi con il naso sotto le ascelle e seguendo con la punta della lingua la sottile traccia di peli che scendeva verso l’ombelico.
Fu allora che colsi l’aroma pungente del suo cazzo eretto sotto le mutande. Infilai la mano sotto la cintura elastica e lo afferrai saldamente: era caldo e umidiccio. Lo estrassi, lo fissai un momento, eccitato e commosso, poi tirai giù la guaina del prepuzio e mi feci scivolare in bocca il glande sbavato.
Persi del tutto la testa e cominciai a succhiarlo come se non ci fosse domani, gustando con avida bramosia lo spurgo di nettare che l’eccitazione gli produceva.
Non lo sentii venire, doveva essere uno di quelli con l’orgasmo silenzioso, quasi che si vergognino di esternare il loro piacere: tutto d’un tratto mi ritrovai con la bocca piena di un liquido denso e molliccio, che sul momento ebbi l’impulso di sputar fuori, ma che subito dopo, avvertendone il sapore agrodolce, iniziai a deglutire lentamente, mentre dal suo cazzo continuava a sgorgare ancora e ancora. Chissà da quanto tempo non veniva e soprattutto da quanto non gli facevano un pompino.
Continuai a succhiarglielo, finché non fu molle del tutto. Allora mi raddrizzai e tornai ad abbracciarlo, un po’ timoroso delle sue reazioni.
“L’hai ingoiata?”, fece lui incredulo.
“Ti fa schifo?”
La sua risposta fu un bacio profondo, in cui gustò dalla mia lingua il sapore della sua stessa sborra. Continuammo a limonare e ben presto gli tornò turgido e smanioso. Il resto della notte passò confusamente: ricordo che mi inculò con dolce determinazione, come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita; ricordo che mi permise di leccargli il buco del culo, fino a farlo sguaiolare di piacere; ricordo che, quando iniziai a farmi una sega per scaricare la tensione, Silvio me prese in mano e continuò lui, sussurrandomi non so più quali parole, ammesso che le abbia intese nel delirio in cui stavo vivendo.
La mattina di Natale ci colse abbracciati e mezzo addormentati. Dopo una doccia e un’abbondante colazione:
“Forse è meglio che tolga il disturbo.”, mi disse Silvio con una nota amara nella voce.
“Scherzi? – feci io – è il giorno di Natale, ci sono i regali da aprire… Aspetta fino a domani, ok?”
“Ma io non ho regali per te…”
“Tranquillo, ne ho io per tutti e due.”, e andammo in soggiorno ad aprire la montagna di pacchetti che avevo accumulato sotto l’albero.
Passammo a letto il resto della giornata e il giorno dopo eravamo talmente stracchi e stremati, che ce ne dimenticammo del tutto. Quando finalmente recuperammo un minimo di lucidità qualche giorno dopo, lui non sembrava avere più tanta voglia di andar via, e io nemmeno un po’ di lasciarlo andare… tanto più che nel frattempo la sua capanna di cartoni chissà che fine aveva fatto e io non me la sentivo proprio di lasciarlo solo e al freddo in mezzo alla strada: che razza di benefattore sarei stato?
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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